Linkiesta, 15 dicembre 2021
ll fideismo da coprifuoco
Non capisco perché tutti i medici che affollano i collegamenti televisivi si concentrino sulla minore o maggiore contagiosità delle varianti, e nessuno sull’unica incognita davvero importante, sul mistero così misterioso che le misure di contenimento dei governi divergono: questo virus fa gli straordinari notturni o no?
In Italia pareva di sì: quando siamo stati in clausura non si poteva stare in giro dopo le dieci di sera; ricordo, in primavera, uno spettacolo teatrale alle sette con cena alle otto e mezza, per essere a casa entro un coprifuoco ben più stretto di quello che avevo negli anni di scuola. Anche se poi c’erano tutte le attenuanti, se eri in giro ma con la ricevuta del ristorante in tasca non ti multavano, ma io comunque sono una personcina prudente e mi fido dei governi: evidentemente il contagio dopo le dieci era più contagioso, sapevano quel che dicevano, e quindi correvo a casa.
In Inghilterra lo straordinario notturno scatta più tardi. Ieri il governo ha emesso delle linee guida per quei posti infernali che in provincia si sintetizzano col nome di «disco pub»: posti dove si va a bere ma che hanno anche una pista da ballo. In questi lieti ritrovi, prima dell’una (di notte) nessuno è tenuto a controllarti il lasciapassare che certifica che sei vaccinato. Certo, se volete potete controllarlo a chi entra a qualunque ora, cari proprietari dei locali, ma non siete tenuti. Se uno si attarda sulla pista da ballo dopo l’una di notte, invece, allora è obbligatorio che sia vaccinato.
Il perché da mezzanotte all’una il cliente ballereccio sia considerato meno pericoloso per il contagio che dopo l’una è un mistero misterioso, come molte cose che hanno a che vedere con la gestione di questo virus; gestione che – ovunque – sembra tenere in maggior considerazione quel che la popolazione è considerata in grado di sopportare senza ribellarsi, rispetto a quel che è davvero pericoloso.
È evidente che sputazzare nei ristoranti è più contagioso che stare zitti al cinema, però al cinema mi puoi far stare con la mascherina e il film lo vedo comunque, al ristorante con la mascherina non potrei mangiare e mica puoi mandare fallito l’intero reparto ristorazione.
È evidente che in centro a Milano o a Bologna o a Roma alle otto di mattina non c’è nessuno e potrei camminare senza mascherina, ma se inizi a fare delle eccezioni orarie poi come fai a far rispettare la regola a quelli che fanno compere natalizie alle quattro di sabato pomeriggio alitandosi addosso e spintonandosi e strusciandosi?
L’altro giorno Thomas Chatterton Williams, intellettuale americano che vive a Parigi, ha twittato il proprio stupore per la scoperta, tornando in Francia, di dover tenere la mascherina in corridoi universitari desolatamente vuoti, ma di poterla togliere in palestre affollate (e dove, aggiungo io, ansimi e sputacchi e diffondi qualunque possibile contagio). È stato immediatamente accusato di ribellarsi alle misure precauzionali, d’essere un picchiatello, di non capire la necessità di contenere la pandemia: il tema suscita un tale fideismo che o dici che metterti la mascherina è la cosa più bella che ti sia capitata negli ultimi centoventi anni o sei un negazionista. Non si vedeva una tale abolizione del dubbio e delle sfumature e del diritto di discutere dai postumi dell’11 settembre.
Aspetteremo perciò molti anni per vedere la pièce che Yasmina Reza non può non scrivere, e di cui ho intravisto un’anticipazione una settimana fa in un ristorante di Bologna. Si è avvicinato al tavolo un tizio al quale stavo già per dire che rose non ne volevamo e accendini neppure, ma lui ci ha mostrato un distintivo d’una qualche forza dell’ordine, proprio come nei film. Profondendosi in scuse e promettendo di sbrigarsi, ci ha detto che doveva controllare il lasciapassare verde.
Ero emozionata come i fideisti si emozionano quando si vaccinano: oddio, ma quindi esistono i controlli, persino in questa nazione cialtrona, sembriamo quasi normali, che meraviglia, tenga, eccole tutte le certificazioni che ho. La mia amica aveva fatto un tampone nel pomeriggio, per entrare in uno studio televisivo, e voleva mostrare anche la certificazione del tampone oltre a quella della vaccinazione: eravamo chiaramente sovreccitate. E cosa c’entra Yasmina, chiederete voi.
L’ho vista comparire all’orizzonte della serata quando il poliziotto ha fatto una cosa che nei ristoranti, che pure la certificazione per farti sedere la chiedono, non fanno mai: ha voluto accertare che fossimo davvero le titolari delle certificazioni che gli mostravamo. Ci ha chiesto i documenti.
Si è allontanato con la mia carta d’identità per annotarsi i dati, e io ho pensato ai poveri adulteri. A quelle che raccontano al marito che sono a giocare a bridge con le amiche, e invece sono al ristorante a lume di candela, e pensavano che nessuno – tranne qualche cameriere discreto – sarebbe mai venuto a saperlo, e invece eccole qua, con l’adulterio schedato.
Dove sei, Yasmina. Il primo divorzio da «svergognata, ti hanno schedata mentre mi tradivi in piena pandemia» puoi scriverlo solo tu (sei anche l’unica che può scrivere «svergognata» senza temere le accuse di sessismo). E magari, già che ci sei, mettici anche una divergenza oraria: caro, non ero contagiosa, era prima delle dieci sul fuso di Parigi, e prima dell’una di notte su quello di Londra.