Corriere della Sera, 14 dicembre 2021
Il modello Lucano spiegato da Saviano
Una volta Ada Colau, la sindaca di Barcellona, disse che la scelta non è tra accogliere e non accogliere.
L’unica scelta che abbiamo è tra accogliere bene ed accogliere male. Quando si alzano i muri si costringono le persone a percorrere rotte più pericolose. Quando si nega la libertà di movimento si incoraggia l’industria del traffico di esseri umani. Infine, quando si nega una buona accoglienza a chi rischiando la vita e a qualsiasi costo prova ad avere una nuova vita, si ingrossano le fila degli schiavi alla mercé dell’industria dello sfruttamento: nei campi, nella prostituzione, nella manodopera a nero di ogni forma e specie.Riace ha fatto il contrario, il modello Riace ci ha insegnato che l’accoglienza fa bene non solo a chi è accolto ma anche a chi accoglie. Ha rappresentato per anni l’alternativa ai casermoni, alle palestre, agli hotel affittati in cui disperati vengono stipati speculando sul cibo che poi risulta riso e acqua. Riace ha dimostrato che è possibile accogliere là dove noi emigranti abbiamo lasciato terra abbandonata, qualche volta anche bruciata. Insomma è la prova provata che accogliere può significare rinascita sociale, economica e anche politica.
Aprendo le porte ne guadagniamo tutti, ecco solo qualche esempio. Nella regione Calabria, in cui da decenni lo spopolamento è inarrestabile e il futuro è un deserto demografico (l’Istat prevede che dei circa 1.900.000 abitanti di oggi ne resteranno 1.000.000 nel 2050, in maggioranza over 65), con il modello Riace «a pieno regime» la popolazione del borgo è raddoppiata: da circa 500 abitanti con una media di età altissima a quasi mille abitanti di 26 nazionalità diverse. Tutti riacesi davanti ai diritti. Nella Calabria della disoccupazione al 20%, con il modello Riace sono state create due cooperative per la differenziata, un asilo nido, i progetti d’accoglienza, il turismo solidale e un bene confiscato sulla Marina (che non si è avuto il tempo di avviare).
Quando il modello Riace accoglieva «a pieno regime», in paese lavoravano circa 100 persone, almeno 80 riacesi di nascita: praticamente l’impatto occupazionale della Fiat, in un paese di circa 1.700 abitanti. Nella Riace di Lucano non si pagava l’Irpef comunale e nemmeno l’occupazione del suolo pubblico per le attività commerciali. Lo scuolabus nelle contrade era gratis. La carta d’identità non si pagava (di questo Lucano è stato accusato per danno erariale). I riacesi pagavano solo la tassa dei rifiuti, l’Imu sulle seconde case e l’acqua in misura ridottissima visto che l’autonomia della sorgente aveva sottratto il Comune dai prezzi della Sorical (l’azienda pubblico-privata sanitaria su cui non basterebbero centinaia di pagine per raccontarne le contraddizioni e ambiguità).
Ancora un esempio. Nella Calabria del disastro sanitario, il modello Riace ha portato fin li un ambulatorio medico (Jimuel) al servizio non solo dei beneficiari dei progetti ma di tutto l’hinterland scoperto da qualunque servizio pubblico sanitario. Per tutto questo il modello Riace non lo definirei un modello per migranti; è assai più calzante parlare di «modello di cittadinanza» e non solo quindi di accoglienza. Un modello efficace con cui lo Stato risparmia. Risparmia quando non si pagano affitti esorbitanti per megastrutture in cui depositare la gente, come ville e hotel. Risparmia quando non si ricorre alle banche pagando gli interessi per i ritardi ministeriali.
Legalità e giustizia
Oggi questo posto è il luogo della distanza tra legalità e giustizia, ricorda al Paese che legale non basta, bisogna che sia anche giusto
Non solo, i «bonus» adottati a Riace per sopperire ai ritardi del ministero, venivano consegnati direttamente ai beneficiari che erano così liberi di fare la spesa loro stessi sul territorio, eliminando l’orribile meccanismo di dipendenza delle buste della spesa che abitualmente gli operatori consegnano ai rifugiati. I famosi 35 euro al giorno (quelli su cui la destra ha costruito tanta propaganda) a Riace non venivano usati in modo assistenziale e parassitario, ma investiti per creare posti di lavoro, istituire borse di lavoro. E questo ha portato una ricaduta sul territorio.
Verrebbe da dire, assecondando un luogo comune che vede il Sud sempre ultimo e sempre inefficiente, che se tutto questo è stato possibile a Riace, nell’entroterra calabrese, è possibile ovunque. Questo rendeva il miracolo di Riace così potentemente simbolico, perché riproducibile in moltissime realtà mediterranee. Le case diroccate degli emigranti andati via da Riace hanno trovato nuova vita con l’accoglienza diffusa. Chi ormai vive da decenni dall’altra parte del mondo, o ci è addirittura nato, ha dato ad altre persone la possibilità di trovare un rifugio, un tetto. Le case abbandonate grazie all’accoglienza, quindi, hanno ripreso vivere e a respirare.
È tutto qui il punto: in quella «ricaduta sul territorio» che ha portato la Regione Calabria ad approvare quel modello con la legge n. 18 del 2009, un tentativo di estendere ad altri borghi della regione questo modello di rinascita. Riace ha individuato soluzioni che colmavano i vuoti istituzionali (per esempio davanti ai ritardi ministeriali o alla condizione dei lungo permanenti), smantellavano il business dell’accoglienza in un sistema che mette la burocrazia davanti alle persone, la regola scritta davanti alla logica evidente. E lo ha fatto lì, dove regna la ’ndrangheta. «”L’utopia della normalità”, se la fai in Calabria, deve confrontarsi con la criminalità organizzata», ha scritto Tiziana Barillà in «Mimí Capatosta. Mimmo Lucano e il modello Riace» (Fandango, 2017). E oggi l’accusa ha puntato il dito proprio contro la gestione di questo modello.
Chiariamo subito un equivoco insopportabile: Mimmo Lucano è accusato (anche) di «peculato» ma non si è messo in tasca un euro, è trascritto nei verbali del processo. Mimmo Lucano non è accusato di avere rubato per sé, ma di avere «mal gestito» i fondi dell’accoglienza. Per quanto mi riguarda di averli usati troppo bene! Ma questo il nuovo grado di giudizio spero lo chiarirà. Da virtuoso a criminale, in poco più di dieci anni.
Oggi Riace è il luogo della distanza tra legalità e giustizia, ricorda al paese che «legale» non basta, bisogna che sia anche «giusto». Dopo l’assedio e la chiusura, tornando a Riace non salta agli occhi solo l’assenza di qualche decina di rifugiati, manca proprio il tessuto sociale, il tessuto di vita. È tornato a essere uno dei tanti paesi dell’entroterra calabrese, del meridione.
Mimmo Lucano è stato condannato in primo grado a 13 anni e due mesi. «Rompere il presente può costare caro», ma sono certo che il tempo darà ragione a Riace. Del resto, lo scorso aprile 2019 la Corte di Cassazione, ha espressamente dichiarato che l’impianto accusatorio non sta in piedi: mancano i «comportamenti» fraudolenti di Domenico Lucano. Quella sentenza non ha a che vedere con il processo in corso a Locri, ma ci parla dello stesso incriminato. Una voce che non può rimanere inascoltata.