La Stampa, 14 dicembre 2021
L’auto green costerà 70mila posti
La filiera dell’auto si ribella alla fine della produzione di motori benzina e diesel nel 2035. Le quattro grandi associazioni industriali del Nord (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto) si dicono «sconcertate» per la scelta del governo di accettare la data del 2035: «Quell’orizzonte – scrivono in un comunicato i quattro presidenti – è sostanzialmente inattuabile allo stato odierno». Questo perché, aggiungono gli imprenditori, «senza l’indicazione di un’alternativa, o quantomeno l’introduzione di un principio di gradualità, la strada tracciata dalla Ue comporterà il blocco degli investimenti nei motori a combustione oltre alla sostanziale chiusura del mercato. Solo in Italia si rischiano di bruciare oltre 70 mila posti di lavoro entro il 2030. È sconcertante la mancanza di una progettualità chiara che consenta alle migliaia di aziende italiane del settore di adeguarsi gradualmente all’imposizione dell’Ue». In particolare, precisa Confindustria, «l’attuale scadenza rischia di mandare ko il 50 per cento del settore della componentistica».
Il pronunciamento degli industriali viene dopo quelli del presidente di Confindustria Bonomi e dell’Anfia, l’associazione dei componentisti dell’auto. Dietro l’alzata di scudi c’è l’obiettiva difficoltà del sistema automotive italiano a seguire l’evoluzione delle quattro ruote. Perché accanto a fornitori che sono certamente all’altezza del passo verso l’elettrico compiuto dai grandi gruppi di assemblaggio finale (dai tedeschi, a Stellantis, ai costruttori americani), altri hanno continuato a sperare che il momento del grande salto arrivasse più tardi consentendo di continuare a produrre a lungo marmitte, pistoni e tutto quanto il motore elettrico si porterà via.
Secondo uno studio dell’Osservatorio sulla componentistica della camera di commercio di Torino solo il 41 per cento degli imprenditori della filiera ritiene che la loro competitività potrà aumentare grazie alla elettrificazione dei motori.
Non è un problema solo italiano. La riunione di Glasgow per Cop 26 ha dimostrato che dubbi e resistenze ci sono anche nella filiera giapponese e in quella tedesca. Per questa ragione i ministri italiani (Cingolani, Giorgetti e Giovannini) non hanno firmato in Scozia la dichiarazione finale sullo stop alle auto a combustione endotermica entro il 2035. Per questa ragione da tempo Toyota mette in guardia dai rischi del passaggio rapido all’elettrico. La Germania, dove la produzione di motori diesel è ancora molto alta, fa parte di questo gruppo dei prudenti che vorrebbero una transizione più lunga.
La parola d’ordine dei sostenitori di questa tesi è «neutralità tecnologica». Espressione che non per caso si ritrova anche nel comunicato di ieri delle associazioni industriali del Nord: «Auspichiamo la neutralità tecnologica proprio per poter esprimere al meglio le nostre competenze». Nell’espressione c’è un’accusa implicita, la stessa del gruppo di paesi restii a Glasgow: il passaggio all’elettrico tout court sarebbe frutto di una scelta ideologica. Se invece l’obiettivo è quello di abbattere le emissioni inquinanti, allora non è importante con quale tipo di motore si raggiunga. Questa, del resto, è sempre stata la posizione del ministro dell’industria Giorgetti.
Ad aprire la discussione e scatenare la polemica è stato invece il comunicato dei tre ministri italiani coinvolti che venerdì scorso introduceva per la prima volta la data del 2035 anche per l’Italia: «L’annuncio è l’inizio di un processo destinato a durare oltre un decennio», ha precisato il ministro Giovannini a La Stampa. Ma la polemica non si placa.
Ora gli imprenditori chiedono proprio al governo «un piano industriale per la transizione del settore automotive». E ipotizzano che con il passaggio all’elettrico entro il 2035, nell’automotive italiano aumenteranno «le spinte alla delocalizzazione».