il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2021
Ritratto al veleno di Luciano Violante
Anche se non sembra al primo sguardo, Luciano Violante è autore di testi folgoranti, qualche volta poetici, quando lo ispirano le montagne sopra di lui, a Cogne. Più spesso politici, quando a stimolarlo sono le poltrone sotto di lui, a Roma. Testi che di stagione in stagione, di ravvedimento in ravvedimento, recita con l’intensità e i tempi di una commedia italiana esemplare, la sua.
Dai remoti esordi di magistrato duro e puro, ha scalato mezzo secolo di politica diventata soffice come gomma piuma – con tanto di allori, infortuni, e appassionanti giravolte – per finire tra gli acciai della Fondazione Leonardo, emanazione della nostra più prestigiosa fabbrica di armi e relazioni internazionali, che passano talvolta per l’inconveniente dei bombardamenti umanitari, purtroppo rumorosi. Al netto dei quali lui personalmente organizza eleganti convegni con luci adeguate e coffee-break, dove non si parla delle molte macellerie in corso, dal Medio Oriente all’Africa, ma “di favorire il dialogo con la società civile”, spiegando i benefici della Difesa che è “tecnologia per il bene comune”.
Il suo bene personale, suonati gli ottant’anni di carriera esistenziale, punta a due vette, quella domestica del Gran Paradiso, se mai si ritirerà in pensione. O quella assai più alta, la cima del Colle. Dove sedersi fino a quando in pensione ci andremo noi.
Nacque sfortunato, Luciano Violante, nel campo di prigionia inglese di Dire Daua, Etiopia, anno 1941, impero coloniale dell’Italietta già in sfacelo. Rientra con la madre in Italia, a Rutigliano, provincia di Bari, il padre, giornalista comunista, arriverà solo nel 1946. Si laurea in Giurisprudenza, diventa assistente di Aldo Moro in università e militante togliattiano in casa. Primo incarico, Giudice Istruttore a Torino, anno 1968. Prima condanna, quella di un ragazzo che ha dato del fesso a un vigile urbano. Cosa che oggi lo farebbe inorridire, ma all’epoca fa curriculum.
Si specializza in inchieste sul terrorismo rosso e nero. Ma sarà il cosiddetto “golpe bianco” di Edgardo Sogno a lanciarlo nella piena risonanza mediatica. Edgardo Sogno è un personaggio di molti romanzi in proprio, nobile, monarchico, franchista in Spagna e antifascista clandestino in Italia – guiderà l’evasione dal carcere di Ferruccio Parri – in tempo di pace polemista senza pace, giornalista, carriera diplomatica in mezzo mondo. Violante lo accusa di preparare il colpo di Stato. Lo indaga. Nel 1976 lo arresta. Due anni dopo le prove non reggono, l’inchiesta va in fumo. Ma intanto Violante ha conquistato le prime pagine dei giornali e delle polemiche. Cosa che oggi lo farebbe inorridire, ma all’epoca fa curriculum.
Al punto che il Pci lo candida alle elezioni politiche del 1979, bye bye magistratura. Entra trionfale alla Camera dei deputati, dove rimarrà per sei legislatura, 29 anni filati, un record che si gioca con il capocannoniere Mastella. In pieni Anni di Piombo diventa membro della Sezione Problemi dello Stato, delfino di Ugo Pecchioli, eminenza grigia del Pci, canale di collegamento con il generale Carlo Alberto dalla Chiesa nella lotta alle Brigate Rosse, gestendo infiltrati e controinformazione nelle fabbriche.
Si impegna nell’antimafia dalla parte sbagliata, anche se lui crede a fin di bene: fa la guerra a Falcone che dopo il Maxiprocesso a Cosa Nostra si ritrova isolato tra i corvi della Procura di Palermo, accusato di protagonismo e di non inquisire Andreotti. Salvo santificarlo subito dopo il boato di Capaci, come tutti, e conquistare, un mese dopo, la presidenza della Commissione Antimafia.
Quando scoppia Mani Pulite, cavalca l’onda, più di tutti. Cossiga lo battezza “il piccolo Vishinskj”, il giudice dei processi staliniani. Diventa la bestia nera dei socialisti e dei democristiani inquisiti, addirittura il capo del partito dei magistrati giustizialisti. Lui replica indignato: “Il partito dei magistrati non esiste. Esiste invece quello degli imputati eccellenti, capeggiato da Craxi e da un pezzo di classe politica abituata all’impunità”. Quando Berlusconi scende in campo, anno 1994, annuncia battaglia contro il “giro mafioso” che lo sostiene, definisce Forza Italia “un manipolo di piduisti”. E siccome gli piace vantarsi di saperla lunga, rivela a mezzo stampa che “esiste una inchiesta a Palermo su Dell’Utri”. Ecco il complotto delle toghe rosse, strilla Silvio B. che vince alla grande le elezioni, mentre Vishinskj deve dimettersi dall’Antimafia.
Visto che non paga, Violante si dimette anche da soldato dell’intransigenza per trasformarsi in “uomo del dialogo”. Dice che con le inchieste forse si è esagerato e che Craxi non è solo un latitante. Funziona. Al punto che due anni dopo, 1996, viene eletto presidente della Camera, dove esordisce con l’entusiasmo del neofita, chiedendo di riconoscere sempre le ragioni degli avversari, comprese quelle “dei ragazzi di Salò”. Che poi sarebbero i patrioti che con le SS tedesche bruciavano i paesi italiani e impiccavano ai lampioni i partigiani. Seguono polemiche, applausi, fuochi d’artificio. Ma specialmente segue la celebre Bicamerale per le riforme costituzionali condivise, dove sinistra e destra promettono la riconciliazione sotto il magistero di D’Alema e Berlusconi. Il quale, istruito dalla politica degli affari, rovescia il tavolo al momento opportuno e si prende il banco. Violante regala precetti al nuovo corso: “Mani Pulite è stata una stagione giacobina”, “Craxi un capro espiatorio”. E poi: “Esistono giudici che hanno costruito le loro carriere sul consenso popolare”. Stigmatizza, da reduce, l’“intreccio malato” tra giornalisti e pm. Conferma a Silvio B, in un celebre intervento alla Camera nel 2002 “che lui sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo, che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta”. Con il quale, siamo nel 2008, apre la sua riconciliante fondazione bipartisan, “Italiadecide”, dove non si decide un bel nulla, ma si intagliano idee di palissandro, grazie alla liberalità dei finanziatori coinvolti, non le masse popolari, ma Eni, Enel, Autostrade, Banca Intesa, Terna, Poste italiane, Unicredit e naturalmente Leonardo. Mondo di massima eleganza, dove Violante, che veste abiti su misura e cena d’abitudine in terrazza con vista sui Fori Imperiali, si trova come un’acciuga nel burro.
A coronare oggi la sua metamorfosi arrivano gli elogi di destra, sinistra, centro. Gli inviti quotidiani di Mediaset. I complimenti di Dell’Utri: “Anche lui può redimersi”. Regalo magari inaspettato, ma mai restituito.