la Repubblica, 13 dicembre 2021
Le relazioni pericolose tra cinema e letteratura
Come risolvere la questione del passaggio dall’immagine alla pagina, dal cinema al libro, dalla creazione al commento? Ci viene in mente questa domanda leggendo la raccolta postuma delle recensioni cinematografiche di Ottavio Cirio Zanetti ( 300 dichiarazioni d’amore al cinema,
Erga edizioni). Questo giovane critico e insegnante all’Università di Roma Tre vittima di una malattia rara, la neurofibromatosi cui si aggiunse un tumore maligno, e scomparso trentaseienne all’inizio del 2020, ha dedicato la sua breve e intensa vita al cinema, vedendolo, scrivendolo e facendolo. Fu il regista di due mediometraggi, Il miele del Luxembourg (con Umberto Eco) e Sipario (ultimo film in cui apparve la grande Valentina Cortese). Forse la minaccia che pesava su di lui accresceva la sua sete di scoprire e di condividere. Col cinema acquisiva un’esperienza che la maturità e la vecchiaia non gli avrebbero potuto dare.
Pasolini, in una delle sue numerose rubriche, parlava di «descrizioni di descrizioni» per riassumere in che consiste il mestiere di critico letterario. Si trattava quindi per lui di ricomporre sulla pagina la scrittura di un libro che già poteva essere considerato una lunga serie di descrizioni di paesaggi, di situazioni, di psicologie, di rapporti umani, di visioni del mondo, d’intrecci. La critica diveniva secondo Pasolini una specie di traduzione del libro in una lingua riflessiva e metalinguistica, una traduzione che resta descrittiva e narrativa. Un raddoppiamento dell’atto di descrivere.
Per quel che riguarda il cinema, Pasolini pensava che usasse la realtà come linguaggio. Un regista descrive la realtà con la realtà, argomentava, giacché fa vedere sullo schermo veri alberi, veri esseri umani, vere case, eccetera. Quindi diventava fondamentale, per recensire un film, poterne descrivere chiaramente le immagini e tradurre il discorso cinematografico in una lingua più astratta, fatta di parole scritte, e letteraria. Si poneva il problema del passaggio dallo schermo al libro, dalla visione alla lettura.
Problema abbastanza delicato, che rispondeva all’altro problema, quello dell’adattamento delle opere letterarie al cinema. Problema molto familiare a Pasolini, che aveva deciso di diventare regista dopo una prima esperienza di scrittore. Ma per lui girare Accattone dopo avere scritto Ragazzi di vita e Una vita violenta, era un modo di riavvicinarsi alla sua cara realtà, non avendo più bisogno di quel filtro della descrizione scritta che è il romanzo. Ha scritto molto di queste questioni in Empirismo eretico.
Marguerite Duras, altra scrittrice diventata regista, ha affrontato le stesse difficoltà quando, delusa dai film tratti dai suoi romanzi ( Una diga sul Pacifico o Il marinaio di Gibilterra ) ha deciso di prendere in mano la macchina da presa. L’ha fatto a modo tutto suo (tipo Jean Cocteau, diciamo). E ha provato il bisogno di commentare a lungo le sue scelte estetiche in varie interviste e scritti teorici, adesso raccolti in Le cinéma que je fais, écrits et entretiens ( Il cinema che faccio, scritti e interviste, a cura di François Bovier et Serge Margel, P.O.L., pagg. 540, euro 24). Una parte era già stata pubblicata in varie riviste e raccolta in Les yeux verts (Les Cahiers du cinéma, 1980, trad. italiana Gli occhi verdi, Shake, 2000), quando la scrittrice, mancata nel ’99, viveva ancora. Duras spiega la sua lenta e implacabile evoluzione nell’osare assumere da sola la totalità di un film, interamente dal trattamento fino al montaggio. Ma partiva dall’idea della «distruzione della parola» e infatti ha adattato il suo libro Détruire, dit-elle (Minuit, 1969, Distruggere, lei disse, Marcos y Marcos, 1996). Voleva anche «distruggere il cinema». Ma non qualsiasi cinema, un certo cinema narrativo e commerciale, di cui non si fidava più. Proponeva, nei suoi film ( India Song, Nathalie Granger, Le camion, eccetera) un’alternativa. Era quindi necessario reinventare un nuovo modo di narrare, una nuova funzione degli attori, un nuovo uso delle voci, una diversa sincronizzazione tra immagini e commenti, un altro realismo. Ogni creatore è attraversato da questo tipo di bisogno, quando si tratta per lui di cambiare linguaggio, di passare dallo scritto all’immagine.
Ma torniamo al contrario: quando il film deve essere raccontato in poche parole, cioè quando si recensisce un film per convincere i lettori ad andarlo a vedere o per proporre approfondimenti di analisi a quelli che l’hanno già visto. Anche Alberto Moravia dedicò tanto tempo a vedere film e a commentarli nella sua rubrica su l’Espresso.
Ogni tanto i suoi nemici, ironici, prendevano in giro il modo assai rigido con cui Moravia raccontava gli intrecci, poi dava un giudizio sbrigativo. Ma il cinema era molto importante per lui. Non solo perché i suoi migliori romanzi erano stati ottimamente adattati ( Gli indifferenti da Maselli, La ciociara da Vittorio De Sica, Il disprezzo da Godard e Il conformista da Bertolucci, ognuno di questi famosi registi avendo trovato dei modi molto personali di farne cose tutte loro), ma perché cercava, nei propri romanzi e racconti, un equivalente del cinema, nella chiarezza e la scorrevolezza del discorso, dei dialoghi, delle visioni. E viceversa, quando gli toccava di raccontare i film di autori, si applicava a trarne nei suoi pezzi squisiti raccontini.
Quel che ci colpisce, nel libro di Ottavio Cirio Zanetti, oltre al ritmo frenetico della sua divorante passione e al ventaglio generoso dei suoi gusti “onnivori”, è l’originalità del suo sguardo nel raccontare le storie: delle sceneggiature ritiene qualche particolare, non tutti (al contrario di Moravia che teneva a non dimenticare il ninimo dettaglio), e lo collega alle sue ossessioni del momento, molto soggettivamente, e alla sua cultura, sicché le sue recensioni costituiscono insieme una storia personale e una storia tout court del cinema. I film più importanti dal 2013 al 2019 sono visti e analizzati. Non manca un solo regista di fama o esordiente o del passato (da Woody Allen a Zurlini) né un attore celebre o che lo diventerà, non solo nei film usciti in quegli anni, ma anche nei film di tutti i tempi.
I riferimenti e i paragoni sono tanti. La raccolta si conclude con dei saggi più lunghi sui registi (Hitchcock e Fellini) che amava particolarmente e cui aveva dedicato tesi di laurea e libri. Fellini è spesso citato, perché era non solo un vicino di casa in via Margutta dove abitava anche Ottavio Cirio Zanetti con sua madre, la critica teatrale Rita Cirio, ma anche un amico che lo invitava sul set e che gli prestava il suo emblematico cappello.
C’è nell’organizzazione di ogni pezzo una grande libertà di tono, di registro che dà all’insieme una diversità vivace, mai ripetitiva nella struttura e l’argomentazione. Si sente la voce di un confidente più che di un semplice consigliere erudito. Basta paragonare la recensione di Venere in pelliccia di Polanski a quella di Quel che sapeva Maisie di Scott McGehee e David Siegel. Nel primo, più che l’intreccio, Ottavio Cirio Zanetti prova a capire la genesi e la funzione del film, nella lunga e variegata carriera del regista polacco. Mentre per il film americano, affronta appunto il problema dell’adattamento (e dell’aggiornamento) di un capolavoro letterario.
E quando si leggono in continuità tutte le recensioni, si capisce che l’autore ci parla anche di sé. Non solo quando allude ad eventi autobiografici, ai propri spostamenti geografici, ai fatti mondiali (stragi, guerre, tensioni politiche di quel periodo molto agitato dal quale inevitabilmente il cinema è segnato), ai motivi casuali che l’hanno portato a vedere questo film in particolare, ma addirittura quando si intuiscono le ragioni profonde del suo interesse non solo razionale e estetico, piuttosto emozionale e intimo (come quando rende conto di Joker di Todd Phillips o de Le verità di Hirokazu Kore-Eda). Un bel film è sempre un film che ci parla di noi. Insieme specchio e scappatoia per ogni regista consapevole e per ogni spettatore sensibile. Due qualità che sicuramente l’autore aveva.