la Repubblica, 13 dicembre 2021
Storie di senza tetto
La verità è che io non lo so che cosa significa dormire per strada, non posso saperlo. Non lo so che cosa significa passare una notte all’aperto con le temperature di dicembre, rannicchiati in uno scatolone, addossati alla vetrina di un negozio, di un ufficio postale, all’ingresso di una stazione come questa. A Termini, sul lato di piazza dei Cinquecento, c’è una distesa di corpi avvolti nelle coperte. Un uomo – proprio mentre gli passo accanto – non trattiene il getto di urina. Senza abbassarsi i calzoni, si libera così, a un passo da chi è in fila per i taxi e si volta per non guardare.
La verità è che di questa vita non so niente. E forse è una domanda stupida, o semplicemente indiscreta, quella che faccio a Emanuele, che si è ritrovato in strada dopo la morte della moglie: come si fa a passare le notti senza un tetto sulla testa? «Non lo so», risponde. «So solo che la testa si svuota di tutti i pensieri. Non pensi più a niente. Non vivi, sopravvivi. E l’unica preoccupazione è quella – sopravvivere – perché non sai se la mattina dopo ti svegli. Vedi solo la morte».
Lo incontro nei locali di Binario 95, il polo di accoglienza per persone senza dimora nei pressi della stazione. La prima volta è arrivato qui per una doccia. «Ma di solito mi lavavo al Verano, qualcuno mi ha detto che c’era di meglio che lavarsi al cimitero». La crisi economica del 2008 gli ha fatto perdere il lavoro di muratore; la scomparsa improvvisa della moglie lo ha stravolto: «Non ho retto al dolore, è come se fossi morto anche io con lei. Per un po’ sono stato a casa di un amico, che poi mi ha buttato fuori. Mi sono ritrovato senza niente, solo un mucchietto di cose che mi ricordavano la donna che ho amato». Ha sessantasei anni; con l’aiuto di chi lavora a Binario 95 si è rimesso «in carreggiata»: «Da solo non ce l’avrei fatta. Ora riesco a vedere il futuro, ho fatto domanda per una casa popolare, ho ritrovato i miei interessi». Quando vede gente sconosciuta dormire fuori, sente una stretta. «La vergogna. La diffidenza. La conosco. Vieni visto come un appestato, e quello di chi ti offre anche solo una sigaretta ti sembra un gesto enorme».
Parlo con Emanuele, e con Vlado, e con Alexandra, grazie a Giuseppe Rizzo, che ha seguito alcune di queste storie e le ha raccontate in un libro dal titolo eloquente, I fantasmi non esistono (Mondadori). Un capitolo lo dedica a Giovanni, trovato morto la mattina dell’Epifania 2021. Cinquantotto anni, di cui quaranta vissuti nei dintorni di Termini. È morto di freddo, il cuore – dopo una notte a quattro gradi di temperatura – non ha retto.
Allo stesso modo è morto, nella notte di giovedì scorso, un giovane di 27 anni, arrivato dalla Guinea sei anni fa. «Capita ogni inverno che qualcuno che vive per strada muoia così, ma le amministrazioni comunali la chiamano “emergenza freddo”. Di conseguenza, usano strumenti emergenziali per affrontarla e non prevedono interventi strutturali», scrive Rizzo. La nuova giunta capitolina è alla ricerca di nuovi spazi, ma si è sempre in ritardo, mi dice Alessandro Radicchi, il presidente della onlus che gestisce Binario 95. «Con la ripresa del flusso turistico, avere stanze d’albergo a prezzi bassi quest’inverno non sarà semplice. E il Covid, in ogni caso, rende tutto più difficile: una tensostruttura, per esempio, diventa un assembramento rischioso. E come ci comportiamo con i non vaccinati? E quanto è complicato organizzare la quarantena di una persona senza dimora?» Anche su questo fronte la pandemia è stata una cesura violenta. Nei mesi di lockdown le vite che nessuno vede erano le uniche visibili, spiccavano nella città deserta. I senza dimora a Roma sono circa ventimila. Hanno storie che raccontiamo poco, e che spesso non hanno voglia nemmeno loro di raccontare. Vlado parla a voce bassa, alza poco lo sguardo. È croato, è arrivato in Italia alla fine degli anni Ottanta, ne aveva trenta. «Sapevo fare l’elettricista, non ho trovato lavoro». E che hai fatto? «Mi sono messo a fare il delinquente». Dice così. Furti nei negozi d’abbigliamento, rapine nelle tabaccherie. «I “paesani” con cui rubavo hanno fatto casino, erano ubriachi, la polizia ci ha arrestato». Una volta uscito, ha dormito nei treni fermi in stazione per il lavaggio («anni fa si poteva, oggi no»), e poi in strada. Ad Ancona ha conosciuto la donna polacca che è diventata sua moglie. «Quando sono stato arrestato di nuovo, ho pensato che non l’avrei più ritrovata. Invece è andata bene, ma solo quello, tutto il resto è andato male». Ogni giorno deve prendere dieci pasticche per un problema al cuore. Ora ha trovato una stanza in zona Battistini. Vorrebbe prendere la residenza effettiva, ha solo quella fittizia, ma è un girone infernale o kafkiano.
Vlado non sorride. Alexandra invece sì. Ha 46 anni, è partita dal Perù nel 2019. Ha trovato un lavoro da badante per una coppia di anziani, poi si è ammalata di tumore. Ha perso il lavoro e mentre arrivava la pandemia si è trovata nel periodo più buio della sua vita. Non vuole parlarne. Dice che ha intenzione di provarci ancora, adesso che sta meglio; che vuole provare a dare una vita migliore ai suoi figli rimasti in Perù. Ha una stanza nella casa di accoglienza di via Sabotino, che ospita donne fragili e persone transessuali. Dice che è la sua seconda famiglia. Le fa eco Emanuele. Poi tace per un istante. «Io non credo in Dio», aggiunge. «Io credo nelle persone».