Linkiesta, 13 dicembre 2021
Caterina Caselli ora fa la vittima
Le donne della mia età dicono d’essersi formate su Oriana Fallaci o su Camilla Cederna, ma l’impresentabile verità è che ci siamo formate su Catherine Spaak. È la ragione per cui in Italia vengono pubblicate le più brutte interviste del mondo: abbiamo imparato dalla signora Spaak a non ascoltare mai le risposte. (Non si è invece ancora trovata spiegazione scientifica del perché, essendo i più incapaci al mondo di fare interviste, pubblichiamo giornali pieni di interviste).
Tuttavia “Harem”, quella formula rassicurante con le tre signore, la Spaak che chiedeva cose a caso in tono suadente, l’uomo misterioso che entrava alla fine (tipo valletta che consegna i premi), ha fatto per noi più d’ogni formazione culturale del liceo, persino più dei romanzi non previsti dal programma che immancabilmente ci passava qualche cugino o sorella più grande, persino più dei Fassbinder che andavamo a vedere in cineteca se eravamo così fortunate a crescere in città dotate di cineteche (stasera, prima di dormire, date una carezza ai vostri figli, e dite loro che c’è stato un tempo di terrore e miseria in cui non avevamo la cinematografia di tutto il mondo sul telefono).
Tutto questo prologo per dire che a me il documentario su Caterina Caselli – “Una vita, cento vite”, al cinema da oggi per tre giorni, regia di Renato De Maria – non serviva: io Caterina Caselli l’avevo vista ad “Harem”.
Non che fossi particolarmente interessata a lei, allora: io ventiequalcosenne, lei produttrice di roba di successo, Tozzi o Bocelli o “Notti magiche”, che era così moschicida che io ancora la squarciagolo nonostante sappia di calcio meno che d’astrofisica. Ero troppo piccola per averla vissuta come “casco d’oro”: “Nessuno mi può giudicare” era così slogan che la conoscevi anche se non la conoscevi, “Perdono” l’avevo sentita in “Sapore di mare”, ma insomma non era roba mia.
Però sapevo che Caterina Caselli era riccia. Era una di noi tignose figliocce della Carrà, ricce senza che quasi nessuno ci abbia mai viste ricce. Raccontò a Catherine Spaak che la moglie del capo della sua allora casa discografica si tagliava i capelli da Vergottini, parrucchiere leggendario di Milano, e lei era andata in Montenapoleone coi suoi ricci scomposti (non esistono ricci naturali ordinati, lo specifico perché magari mi leggono uomini, e di solito agli uomini mancano le basi culturali).
Si era sentita molto Cenerentola, «Salii al secondo piano e c’erano sette Vergottini – sette perché erano cugini, fratelli – che mi dissero ah, com’è conciata, com’è ridotta, ma insomma, va in giro così», e alla fine aveva detto «fate di me quello che volete», e casco d’oro era stato. «Mi sono arresa perché erano in sette». E la Catherine francese, progenitrice di tutto il dolentismo vittimista, «è stata una violenza», e la Caterina italiana «Però alla fine ho detto: vediamo. Vediamo se hanno ragione loro», e quella insiste a volerla vittimizzare, «La persona eri tu, la voce era la tua, con il caschetto o senza», ma la Caselli allora cinquantenne sa benissimo che l’immagine è un tema, lo stile è un tema, il testessismo funziona fino a un certo punto, e insiste a difendere i sette Vergottini prepotenti, «effettivamente è stata una grande intuizione».
Quella Caselli lì non somiglia per niente alla Caselli settantacinquenne che, davanti alla macchina da presa di De Maria, piange per tutto, dalla morte di suo padre sessant’anni prima a quella di Morricone mentre girano il documentario. Però forse è quello il segreto, che la Caselli somiglia al proprio tempo: con piglio nel secolo in cui per procurarti una carriera dovevi esser donna di piglio, e vittimista nel secolo in cui il vittimismo è la più commerciale delle scelte. L’aveva detto alla Spaak, d’altronde; aveva detto «si muore un po’ per poter vivere» col tono casuale con cui si cita la canzone d’un altro. (La doveva incidere, ho scoperto dal documentario, l’Equipe 84: la casa discografica lo considerava un pezzo troppo sofisticato per lei. Poi quelli rinunciarono, e lei si prese lo scarto).
Ma per fortuna non c’è solo la versione commossa di oggi: c’è un sacco di passato. Per fortuna, anche perché ci dà modo di ridimensionarlo: sì, la tv in bianco e nero, sì, la qualità, ma la trombonata di Volonté che declama il testo di “Blowin’ in the wind”, mamma mia, ridatemi Barbara D’Urso.
Però ci sono anche Caterina e Giorgio Gaber che, conducendo un programma insieme, scelgono ognuno un giovane da lanciare, e lui sceglie un certo Franco Battiato, e lei sceglie un certo Francesco Guccini, che «fa l’ultimo anno di università di Lettere, è veramente uno di prima», dice la Caselli ragazzina sembrando, tra il caschetto e il «di prima», un’imitazione di giovanilismo – e invece erano davvero così. Che compassione che ho per me e per te, diceva proprio Guccini (che di cosa scatta rivedendo il passato ha fatto un genere letterario).
E poi c’è il Guccini di oggi, che racconta del primo articolo in cui dicevano che lei l’aveva scoperto, e lo chiamavano «Francesco Puccini, poi c’era una parentesi, si tratta di un mero caso di omonimia, chiusa parentesi».
E il Paolo Conte di oggi, che rievoca quando gli toccò cambiare la tonalità di “Insieme a te non ci sto più” per fargliela incidere: «I tuoi giannizzeri mi hanno detto: no no no, Caterina la canta in Si naturale». Le donne della mia età si sono formate su cantautori con un vocabolario favoloso. Le ragazze, povere loro, dovranno googlare «giannizzeri».