La Lettura, 12 dicembre 2021
Intervista a Toni Servillo
Con Toni Servillo ci avventuriamo lì dove non arrivano le parole, sul terreno dell’immaterialità: l’arte dei suoni. Servillo è un intellettuale prestato alla recitazione, come Giuseppe Sinopoli lo era rispetto alla direzione d’orchestra. Tutto in loro viene filtrato dal pensiero. Servillo ha firmato sette regie liriche, avendo alle spalle Beaumarchais, Da Ponte, Hofmannsthal. L’ultima, nel 2005, Fidelio al San Carlo. Gli impegni a teatro e cinema l’hanno portato altrove. Ma non rinuncia alle sue incursioni musicali. Sarà voce recitante per Lélio di Berlioz, l’8 gennaio a Torino per il Regio. Così ci ritroviamo a ragionare attorno a uno spartito e non a un testo teatrale, che resta il mare in cui Servillo abitualmente nuota. Ma la musica, nella sua esistenza, non è affatto un rivolo periferico.
Quali sono stati i primi suoni della sua vita?
«Sono i canti con mia madre e altre donne, nel cortile di casa, quando si facevano le conserve di pomodoro. Alcuni di quei canti sono stati recuperati nei viaggi di antropologia culturale di Roberto De Simone. La scoperta della musica come capacità di essere emozione senza le parole attiene alla mia infanzia. Una quindicina d’anni fa mi ritrovai con un gigante della poesia come Andrea Zanzotto in un programma di Radio3: due persone raccontavano il loro rapporto con la musica. Rievocai proprio quell’episodio, l’emozione della musica che mette in moto i pensieri. Per Zanzotto, la ricerca andava su certe nenie e litanie familiari che poi tornarono nelle sue poesie, legate a una dimensione popolare del canto mescolato al ricordo. E si fa scena primaria».
Quando invece la musica diventa in lei consapevolezza, fatto culturale?
«Nell’adolescenza degli anni Settanta, quando la musica abbandonò i paradisi dell’infanzia e la sua indefinibilità, ci fu la scoperta del rock e dei cantautori, che ti fa sentire dentro una comunità di persone: allora ecco i Led Zeppelin e De André, De Gregori e i Genesis. Ma fu salvifica la scoperta del jazz. Miles Davis, Charles Mingus e John Coltrane... È la dimensione di libertà dalle forme (non si tratta tanto d’improvvisazione), nutrite di una straordinaria ricchezza di note. Mi aprì spazi infiniti di libertà nel ritmo, nei compositori, nella forma».
E il passaggio alla musica classica?
«Avvenne spontaneo, lentamente. A Caserta ascoltavo la radio sveglia sul comodino della camera da letto di mia madre. Mi chiudevo nella sua stanza nei tanti pomeriggi annoiati della post-adolescenza. Sempre su Radiotre Piero Rattalino parlava del pianismo e di Chopin. Mi accorsi che c’erano informazioni riduttive su di lui, che non era affatto autore da salotto. Per lui la parola indefinita dell’uomo era il suono. Scoprii insomma che la musica classica è testo organizzato in suoni. Fu come la scoperta della letteratura, che cioè dentro Mozart, Beethoven e Brahms abita lo stesso infinito paesaggio di pensiero, miserie, ambizioni, interrogativi che ci sono in Tolstoj, Dostoevskij, Proust, Mann... Penso alle quattro Ballate di Brahms, o agli Interludi marini del Peter Grimes di Britten dove non siamo di fronte alla descrizione del mare, sostituito invece da un mare organizzato secondo il linguaggio del suono».
Se parla del mare, la prima associazione va alla musica liquida di Debussy.
«Un altro grande amore. C’è una poesia di Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto, che richiama Debussy. All’origine di quelle note e di quei versi riscontro una forte influenza di accadimenti arditi, un senso di mistero che, per esempio, portò Debussy su reperti affondati in scale musicali orientali; reperti portatori di un modo di pensare il mondo che, sui concetti di spazio e tempo, è il contrario di quello occidentale».
Come cominciare la giornata, con quale musica?
«Stravinskij è un tripudio di gioia ritmica. Mi colpisce non solo la novità compositiva ma la dimensione cromatica. In Dumbarton Oaks, del suo periodo neoclassico, rifà i Brandeburghesi di Bach e guarda al paesaggio musicale del passato come a un grande universo di letteratura testuale. Nei colloqui con Auden che fu il librettista di La carriera di un libertino dice che la massima espressione critica sul passato la esercitano i musicisti».
Stiamo entrando nel campo minato delle stroncature fallaci. Non soltanto dei critici. John Malkovich ha portato in teatro a Milano un lavoro sulle cantonate di musicisti versus musicisti. Ciajkovskij definì Brahms un furfante, Wagner a Rossini consigliò di lasciare stare l’opera seria e di fare altri «Barbieri»...
«Un episodio che mi ha segnato (non so quanto veritiero, ma è così bello...) riguarda Brahms e Mahler a passeggio che si fermarono a guardare l’acqua che scorreva sotto di loro. Brahms al giovane Mahler espresse la preoccupazione che la musica si sarebbe corrotta nella sua nobiltà formale, Mahler lo invitò a guardare l’acqua e disse: lei saprebbe distinguere un’onda dall’altra? La musica cioè non può fermare il suo continuo mutare. Poteva immaginare, Brahms, che Mahler avrebbe chiuso il mondo classico aprendo quello moderno, facendo entrare nella musica qualunque cosa, perfino il tema del Fra’ Martino campanaro della prima Sinfonia?».
E la sua passione per Carlos Kleiber? Un direttore la cui ambizione era quella di non lasciare tracce.
«È l’ideale del maestro assoluto. Il suo insegnamento è trasmettere la musica nel suo aspetto di caducità. Come si fa a non restare incantati davanti alle sue rare testimonianze, la sollecitazione che attraverso il suono prodotto dallo sforzo fisico di un’orchestra raggiunge l’udito e si mette in contatto con il cervello, che mette in moto qualcosa recepito nella nostra esistenza, mandando avanti ricordi di ciò che potevamo essere e non siamo stati? Nel corpo di Kleiber era inscritto tutto ciò, innamoramento e caducità, qualcosa che ci scappa tra le dita. Kleiber (così affascinante se si considera l’esiguità del suo repertorio) è stato il Prospero della musica».
Kleiber diceva che tanta musica è più bella se resta sulla carta e non la si esegue. È la nostalgia di una perfezione che non si può raggiungere.
«Io lo vivo con Shakespeare, che non ho mai messo in scena. Nella trasposizione teatrale ho l’impressione di perdere qualcosa dell’incanto delle sue parole».
Veniamo a Puccini e ai fraintendimenti: musica del cuore o musica aperta al Novecento?
«Il melologo pucciniano di Giuseppe Montesano che ho interpretato a Torre del Lago parlava proprio di questo, gioca sui pregiudizi mentre siamo nell’assoluta modernità. Il re dei sentimenti che arriva a un passo dalla dodecafonia, prefigura il musical e il linguaggio cinematografico... Un genio teatrale assoluto che racconta l’italiano e l’italianità in modo straordinariamente efficace. C’è un filo rosso che unisce Goldoni, Eduardo e Puccini, un mondo in cui ci siamo potuti specchiare».
Riccardo Chailly dice che Puccini ricorda Mahler (che pure non ha scritto opere) nelle melodie piene di insidie e nella costruzione armonica.
«Sì, lo ricorda per colore orchestrale e idee timbriche. Puccini però va all’osso, poche battute, tutto concentrato, gelo e fuoco contemporaneamente per poi lasciare la Butterfly sola in una terra desolata. Le donne di Puccini generano e rigenerano, cantano l’amore liberato della morte. Il verso di Manon, “Ah, non voglio morire”, è il grido d’innocenza di noi che siamo vivi, lei ci costringe a pensare che non siamo nati per la morte e l’abbandono ma per l’amore che ci trasforma con le sue carezze».