La Lettura, 12 dicembre 2021
Gli scritti di Louis Armstrong
Sembra paradossale. Un libro che spalanca una finestra – grande, con vista a perdita d’occhio su una vallata piena di suoni – parlando di un aspetto sconosciuto ma indissolubilmente legato all’«inventore» del jazz – un signore che si chiamava Louis Armstrong (1901-1971) – è stato messo insieme e pubblicato solo una trentina d’anni dopo la sua morte. Quel lato così poco noto e indagato del jazzista è subito chiaro dal titolo del libro che porta la sua firma, Un lampo a due dita. Scritti scelti, a cura del musicologo Thomas Brothers (1955), appena tradotto e pubblicato nella serie Chorus (ideata da Fabio Ferretti) della casa editrice Quodlibet, con la traduzione di Giuseppe Lucchesini e la curatela di Stefano Zenni.
È dunque un libro legato alla scrittura, a lettere, memorie, articoli battuti a macchina o vergati a penna e firmati da colui che nel 1952 i lettori della storica rivista americana «Down Beat» elessero «personaggio musicale più importante di tutti i tempi». E quella per la scrittura fu un’autentica ossessione per Armstrong, quasi quanto quella per la musica.
Scrivere è stato per lui un modo – senza andare a scomodare la psicoanalisi – legato molto probabilmente anche a una volontà di affermare la propria esistenza di essere umano, il proprio pensiero, in un mondo in quegli anni ancora profondamente razzista. Oggi Armstrong – chissà – sarebbe forse onnipresente sui social a pubblicare i suoi pensieri e le immagini colte al volo da uno smartphone... Il linguaggio diretto, confidenziale, la leggerezza di alcuni pensieri, a volte anche banali, espressi nelle sue missive, assomiglia infatti non poco – in quanto a trasparenza – a quello che si può per esempio leggere in tanti post di illustri sconosciuti, su Facebook o Instagram.
Il libro di Brothers è importante per diversi motivi. Ne citiamo uno: perché attraverso gli scritti di Armstrong possiamo ricostruire, oltre naturalmente al suo pensiero più schietto, semplice, diretto, non filtrato da censura alcuna, anche una storia parallela dell’America dei suoi tempi, quelli delle grandi migrazioni.
Sulla sua sfrenata e incontenibile passione per la scrittura, in una delle numerose lettere indirizzate a Joe Glaser – il manager storico di Armstrong – si legge: «Mi spiace di dover scrivere questa lettera con la penna, ma ieri, quando sono arrivato, all’aeroporto di Las Vegas, la Mia macchina per scrivere è caduta dal mucchio di bagagli che erano sul carrello. E la “Scossa” si è Tirata Dietro’ tutto. Tch Tch, non è Una Scocciatura? E sì che volevo “swingarti” di brutto di Ticchettii».
No, non sono errori di trascrizione quelli che avete appena letto. Erano sue scelte precise. Armstrong non aveva concluso le scuole elementari, come la stragrande maggioranza dei ragazzini di colore che vagavano agli inizi del Novecento per le vie chiassose di New Orleans in mezzo a papponi, prostitute, gangster e dove si potevano incrociare neri, ebrei, creoli, spagnoli, francesi, italiani, irlandesi, inglesi; ma era per questo piuttosto orgoglioso della sua abilità oratoria e di scrittura: «Ciò di cui sono realmente fiero è la mia capacità di parlare e di scrivere in buon inglese». Quel buon inglese lo fondeva con il jive talk, il dialetto dei jazzisti. Quando un intervistatore gli chiese se fosse vero che ovunque andasse si portava dietro un vocabolario e un dizionario dei sinonimi e dei contrari, lui rispose: «Ma certo (...). A portata di mano quando scrivo delle lettere. Così se salta fuori una di queste parole difficili io ho già la risposta in tasca».
Armstrong in tasca, se andava a cercare per bene, aveva il jazz, ma non ne era pienamente cosciente. Eppure fu lui a portare questa musica nel mondo, a presentarla con la sua leggendaria fragorosa risata.
Il primo ad accorgersi di una mole di migliaia di lettere scritte dal trombettista nel corso della sua vita è stato il critico Gary Giddins, autore di Satchmo (Doubleday, 1988). Dieci anni dopo, nel 1999, un altro studioso, Thomas Brothers, ha raccolto il testimone, ampliando le ricerche e pubblicando infine (per Oxford University Press) Louis Armstrong in his Own Words. Selected Writings, un volume per la prima volta interamente dedicato agli scritti di Satchmo, che è quello ora tradotto e portato sugli scaffali delle librerie da Quodlibet.
Le narrazioni di Armstrong sono vivissime, coinvolgenti, a volte surreali. Piene di enfasi e di giochi semantici. Le parole, le pause, gli accenti hanno un ritmo sincopato. La punteggiatura è quella tradizionale, ma l’uso che ne fa è liberissimo, come quando con la tromba usava accenti in battere o in levare su una linea melodica di improvvisazione. Gli apostrofi danno spesso una spinta ritmica alle sue frasi. Aveva uno stile solo suo. Masticava le parole, le degustava, sgranandole sillaba dopo sillaba, oppure tutte d’un fiato. Le sue frasi prendono direzioni sorprendenti, inattese, come durante un’improvvisazione, quando stupiva l’ascoltatore portando la linea melodica dove solo i più esperti si sarebbero aspettati.
Fu in quel modo che inventò accidentalmente lo scat, il modo di cantare in cui le parole sono sostituite da una serie di suoni onomatopeici, sillabe senza significato, ma servite da una spinta ritmica che fa sobbalzare l’ascoltatore.
L’antefatto: era il 1926 quando Armstrong entrò in studio di registrazione per incidere Heebie Jeebies. A un certo punto gli cadde il foglietto con il testo che si era trascritto. Ma non voleva interrompere una registrazione che stava andando alla grande. Decise di improvvisare le parole dimenticate con il suono della voce, proprio come fosse uno strumento solistico, facendo sfumare una sillaba nell’altra. Nacque così lo scat.
Sapeva giocare con le connessioni verbali e grammaticali, le prosciugava. Dice bene Brothers nell’introduzione al libro: «La sua prosa acquisì una voce riconoscibile quanto la sua voce musicale». È vero: andavano di pari passo. Siamo nella preistoria dello stile di scrittura dei reading della Beat Generation, delle frasi ritmiche dell’hip-hop ma anche, volendo, dell’oralità percussiva che il poeta Edoardo Sanguineti interpretò in Rap (1996).
I racconti di Armstrong fanno spesso (sor)ridere, come quelli legati alla stipsi (nelle lettere dichiarava quale fosse il migliore lassativo, secondo la sua esperienza) o quando l’adorata madre May Ann interruppe un concerto del figlio salendo sul palco dopo un viaggio da New Orleans a Chicago, perché le avevano detto che Louis non se la passava benissimo.
Sospinto da urgenza espressiva, girava spesso intorno a sé stesso nei suoi scritti (pubblicò, fra l’altro, due autobiografie, nel 1936 e nel 1954). I riferimenti alla sua vita non mancavano mai: il richiamo ai «bei vecchi tempi» nella sua New Orleans era costante. In una lettera – ricordando un consiglio di un amico ricevuto prima di partire alla volta di Chicago – scriveva che Black Benny gli disse: «Dipper (Dipper Mouth, bocca a mestolo, era un altro suo soprannome, ndr), Finché vivrai, non importa dove ti troverai – tieniti accanto un Uomo Bianco(che ti sia simpatico), che possa + voglia metterti una Mano sulla spalla e dire: “Questo è il ‘mio’ ‘Negro’”, e nessuno Ti Farà del Male». Ed è proprio quando abbandonò New Orleans alla volta di Chicago che il jazz, da espressione collettiva divenne individuale e fu lui a consolidarne la qualità solistica. Tempo dopo, con il bebop prima e in un modo più definito negli anni Sessanta, il jazz diventò rivendicazione intellettuale di un’emancipazione nera. Ma è solo grazie a un (forse) inconsapevole Armstrong, snobbato proprio dagli esponenti dell’avanguardia, che il jazz aveva già conquistato il mondo.