La Lettura, 12 dicembre 2021
Intervista doppia a Ramin Bahrami e Davide Ranaldi
Ramin Bahrami (Teheran, Iran, 1976) è uno dei più grandi interpreti di Johann Sebastian Bach. Davide Ranaldi (Milano, 2000) si è imposto al Premio Venezia, che si è svolto domenica 28 novembre al Teatro La Fenice, eseguendo la Sonata in si minore S. 178 di Franz Liszt. Un pianista dalla carriera consolidata e uno pronto a spiccare il volo. «La Lettura» li ha incontrati e messi a confronto.
Chi vi ha avvicinato al pianoforte?
DAVIDE RANALDI — Ho cominciato a suonare a tre anni, benché io non sia figlio d’arte. È stata mia nonna a prendere l’iniziativa di portarmi alla scuola di musica. Che ho imparato a «leggere» guardando le mani del mio insegnante, e solo anni dopo dallo spartito. La passione è nata durante l’adolescenza, quando al mio primo recital ho scoperto l’emozione dell’interazione con il pubblico.
RAMIN BAHRAMI — La famiglia mi ha trasmesso presto l’amore per la musica. Ma non ho cominciato subito a suonare; a tre anni mi fingevo direttore d’orchestra, salivo sul tavolino di casa e dirigevo le sinfonie di Beethoven. Anni dopo, grazie a un’amica persiana tornata da Parigi con le partiture di Bach suonate dal grande Glenn Gould, il fuoco sacro s’è acceso.
Piano B in caso di insuccesso?
DAVIDE RANALDI — No, ho sempre pensato che suonare il piano fosse ciò che volevo fare nella vita. Prevedere un piano B significa non impegnarsi al 100%.
RAMIN BAHRAMI — Mi è stato chiaro da subito che dovevo essere un musicista. Se non pianista, direttore d’orchestra, violinista, clarinettista... La musica è salvezza: è lei che ti sceglie, non ho dubitato che sarei stato altro da ciò che sono.
Studiare altro dal piano è mai stata un’opzione?
DAVIDE RANALDI — Avendo cominciato fin da piccolo con il piano non ho preso in considerazione altri strumenti – anzi, fino a una certa età ho ignorato che ce ne fossero altri. Al liceo ho fatto qualche anno di trombone, mi affascinava molto. Ma non ero portato. Ho provato qualche arco «in amicizia» da colleghi, ma senza particolare slancio. Oggi il mio preferito è il violoncello, ma è comunque troppo tardi e non sono granché.
RAMIN BAHRAMI — Sono un violinista mancato. Mi sono avvicinato al piano da bambino, gli sono rimasto fedele.
Consigli per il giovane Ranaldi?
RAMIN BAHRAMI — Essere sempre sé stesso. Non suonare «da concorso» ma «da artista». Andare ai musei, ammirare i quadri, leggere Shakespeare: avere una curiosità culturale onnivora. Mettere sempre la musica prima di ogni competizione, e godersi il luminoso lancio di riconoscimenti come il Premio Venezia.
DAVIDE RANALDI — Grazie maestro. La ricerca di noi stessi è la sfida più difficile. Ne sono pienamente consapevole.
Nel libro che ha da poco pubblicato per La nave di Teseo, «Mille e una musica. Breve storia della musica persiana», scrive che «le melodie, come del resto le lingue, sono state nel corso dei secoli un elemento fondamentale per l’unione tra le civiltà».
RAMIN BAHRAMI — Questo piccolo libro, del quale ringrazio l’editrice Elisabetta Sgarbi, è il quarto che pubblica, mi consente di divulgare il mio pensiero non solo presso gli appassionati di musica. È un omaggio alla mia meravigliosa terra natìa, la Persia, fondamentale tassello dello sviluppo della cultura tra Asia e Europa. I persiani seppero mescolare le loro esperienze con quelle delle civiltà mesopotamiche dando vita a un mondo musicale multiforme, fatto di poesia, danza e canto. Remoti suoni che, ancora oggi, riemergono inaspettati negli spartiti di Bach e Beethoven.
Cosa significa, per voi, la musica?
DAVIDE RANALDI — Direi vita. La musica non è solo essere sul palco a suonare, o lo studio. La musica sei tu, è sempre dentro di te, con te. La musica è tutto, è la ricerca del bello.
RAMIN BAHRAMI — Sono d’accordo con Ranaldi. La musica è tutto, è sempre. Anche ora, mentre vi ascolto, sto suonando la Variazione n. 3 dalle Variazioni Goldberg di Bach. Quasi un’ossessione.
La parte difficile dell’essere un musicista?
DAVIDE RANALDI — Per quanto mi riguarda è non dimenticare che nella musica c’è sempre un livello più profondo. La sfida è arrivare a raggiungere questa profondità, riuscire a portarla a galla senza perdersi. Il bello dell’essere musicista, invece, è riuscire in questa difficile impresa e condividerla con il pubblico.
RAMIN BAHRAMI — Condivido ogni sillaba. La musica diventa quasi una missione vitale. O, per citare un «collega» molto più grande di tutti noi, Ludwig van Beethoven, «la musica è la filosofia più alta dell’uomo». Sono d’accordo con il maestro Muti: la musica non sono le schitarrate o i flautini che ci insegnano a scuola. Sono le sinfonie di Brahms, Beethoven, Bruckner... Un bambino che ascolta queste musiche sarà un adulto migliore. Ne sono convinto.
Cosa ritenete necessario per far crescere il pubblico della musica classica?
DAVIDE RANALDI — Bisognerebbe educare alla musica i bambini, ma questo nel nostro Paese avviene di rado. Anche cantare è importantissimo. Tutta la musica nasce dal canto che abbiamo dentro. Il canto è una lingua: prima la si impara, meglio è.
RAMIN BAHRAMI — Sono d’accordissimo con Davide. E cito Bach: «Chi canta prega tre volte». Arturo Benedetti Michelangeli, il più grande esteta del pianoforte del Novecento, trasformava la percussione in poesia, in suono perfetto. Il suo, sulla tastiera, non era un contatto meccanico, ma da «pittore». Lui era un pittore.
Ranaldi, si aspettava di vincere il Premio Venezia?
DAVIDE RANALDI — Sono salito sul palco e sono stato investito dall’emozione. La sala era stracolma, condividere con il pubblico un momento così intenso è stato bellissimo.
Lei, Bahrami, è un veterano: la emoziona ancora salire sul palco?
RAMIN BAHRAMI — Ogni emozione è rimasta la stessa di quando ero giovane. Con l’età non c’è più forse la paura. Quel battito del cuore, oggi, è adrenalina pura.
Che significato ha per voi la parola «interpretazione»?
DAVIDE RANALDI — Considero l’interprete il medium tra l’arte e l’appassionato. Senza un interprete le note non sarebbero che segni su uno spartito. Interpretare credo sia forse quasi più difficile che comporre. L’interprete deve imparare a equilibrare, senza contaminarla, l’arte da cui si lascia attraversare, per poi proporla nelle sale a chi ascolta.
RAMIN BAHRAMI — È successo ancora nella mia ultima incisione per Decca, insieme al meraviglioso violinista Guido Rimonda, delle particolarissime Sonate per violino e piano di Bach. Hai l’impressione di possederne la chiave interpretativa, in realtà, pur essendo una melodia modernissima, anche se composta trecento anni fa, ogni volta che vuoi trasmetterla al pubblico devi re-interpretare il testo, ri-attualizzarlo, farlo ri-vivere. Diceva il grandissimo Vladimir Horowitz, «se noi lasciamo queste piccole mosche nere (le note) sulla carta e non le tiriamo fuori, non diamo una attualizzazione, una rivitalizzazione ogni volta che le sfioriamo, queste rimarranno suoni morti».
Vi viene assegnato un posto da direttore artistico: qual è la vostra stagione?
DAVIDE RANALDI — È una cosa che non riesco nemmeno a immaginare!
RAMIN BAHRAMI — Amo la musica a 360 gradi. Con la mia famiglia d’origine mi alzavo alle 8 ascoltando Beethoven, alle 11 le sinfonie di Brahms, alle 14 Charles Aznavour, Frank Sinatra, Elvis Presley. Non ho mai avuto steccati di sorta! Se dovessi approntare una stagione concertistica, oltre alla musica da camera dedicherei ogni mese a un gigante della composizione: Bach, Schumann, Beethoven, Chopin. Organizzerei dialoghi tra musicologi, poeti... Perché ogni volta che si impara a dominare un pezzo, vale per qualsiasi strumento, il lavoro interpretativo è ancora tutto da costruire.
La vostra definizione di successo.
RAMIN BAHRAMI — Avere potuto comunicare dei momenti di felicità all’ascoltatore, avere potuto condividere la bellezza della musica con un pubblico folto. Il successo è quando sai di avere cercato – la perfezione non si raggiunge mai – di servire l’opera d’arte del compositore, e averlo reso un po’ più accessibile a chi lo ha ascoltato. E se il pubblico ti ringrazia, questo è il successo.
DAVIDE RANALDI — È riuscire a trasmettere a chi mi ascolta le emozioni della mia ricerca personale. E ricordare che c’è gioia nella vita: anche la musica più triste nasce da una grande gioia.
Il libro sul vostro comodino.
DAVIDE RANALDI — Ho da poco terminato di rileggere Diario musicale, scritto dalla mia ragazza, la violinista Hildegard De Stefano.
RAMIN BAHRAMI — Porto sempre con me la Bibbia. Sono credente, penso che in un presente buio come il nostro serva molta preghiera, molta musica di Bach, molta poesia. Leggo quella del filosofo e poeta persiano Umar Khayyam; ascolto i Lieder di Schumann cantati da Dietrich Fischer-Dieskau.
E il cd?
DAVIDE RANALDI — C’è Spotify, non si ascoltano più i cd! Il brano che ho ascoltato di più della mia playlist è lo Stabat Mater di Pergolesi.
RAMIN BAHRAMI — Una versione del maestro Claudio Abbado con la Filarmonica di Berlino della Passione secondo Matteo di Bach, uscita tanto tempo fa con «Lo Specchio», un inserto della «Stampa». Un’esecuzione dal vivo preziosa che spero la Deutsche Grammophon prima o poi pubblichi in forma «ufficiale».