La Lettura, 12 dicembre 2021
L’arte prigioniera della Pussy Riot
«Mi scuso, ma sono ancora impegnata con la mia editor. Va bene tra un’ora?», scrive via Telegram Masha Alekhina, una delle attiviste, fondatrice assieme a Ekaterina Samucevic e Nadežda Tolokonnikova, del collettivo Pussy Riot. È il 2 dicembre 2021, a Mosca sono le sette di sera. È quasi passato un anno da quel 22 gennaio quando, su Instagram e Twitter, Alekhina scriveva: «Ci incontreremo domani alle 14 in centro. Per la nostra e la vostra libertà!». Il giorno successivo, dalla Russia, i media di tutto il mondo trasmettono le immagini delle proteste a favore di Aleksej Naval’nyj, l’oppositore di Putin arrestato subito dopo essere rientrato da Berlino, dov’era ricoverato da settimane in una clinica per le gravi conseguenze dell’avvelenamento con l’agente nervino Novicok. E ne sono passati quasi dieci da quel 21 febbraio 2012 quando Vladimir Putin e il mondo intero conobbero Preghiera Punk: «Vergine Maria, Madre di Dio, metti al bando Putin!» urlava nella cattedrale moscovita del Cristo Salvatore una band di ragazze in abiti estivi con il volto nascosto da passamontagna, diventati simbolo del gruppo. Quaranta secondi di performance e poi l’intervento della polizia. Alekhina, da poco mamma, fugge, infila la sua balaclava blu in tasca e scompare nelle gallerie della metropolitana.
«Ti posso chiamare?», scrive infine la Pussy Riot, che da mesi, sempre per quel post, vive alternando arresti domiciliari e custodie cautelari. Grazie al supporto dell’associazione internazionale Artists at Risk, intervenuta a tutela nel suo nuovo caso giudiziario, l’artivista ha assunto lo status simbolico di AR-Resident Prisoner: il luogo dei domiciliari diventa una residenza artistica.
Masha Alekhina, come sta?
«Oggi mi sento abbastanza bene, anche se il mio umore è sempre molto altalenante e sto ancora soffrendo per le conseguenze del Covid, oltre a quelle per avere scritto quel post. Mi accusano di avere promosso cortei in violazione delle restrizioni sanitarie. Suona come una beffa del destino che dopo quelle manifestazioni io non mi sia mai ammalata, ma abbia contratto la malattia durante un periodo di detenzione preventiva che ho scontato la scorsa estate».
Che cosa è successo il 27 gennaio 2021, quando è iniziata questa vicenda giudiziaria?
«Ero scesa in piazza per solidarietà verso alcuni amici sotto processo quel giorno. A causa della pandemia, non è più possibile accedere ai tribunali per seguire le udienze dei prigionieri politici. Due uomini in borghese mi hanno allontanata dalla strada con la forza. Assieme alla mia compagna siamo salite in una macchina grigia, che non aveva alcun contrassegno di una qualunque forza di polizia. Poco dopo è arrivata anche la polizia in divisa, che ci ha riportate a casa. Qui è iniziata una perquisizione alla ricerca di possibili elementi di reato: hanno sequestrato un laptop, una maglietta e il mio libro. Poi siamo state condotte in tribunale, arrestate e condannate ai domiciliari con l’obbligo di indossare il braccialetto elettronico. Ho trascorso tutta l’estate in casa, senza possibilità di uscire».
Già nel 2013, dopo avere attraversato una complessa vicenda giudiziaria, ha scontato la condanna in due diverse colonie penali. Teme qualcosa di analogo?
«Questa volta il problema è che il tribunale, in stile tipicamente russo, afferma che gli atti relativi al mio caso non ci sono più. Per iniziare la pena, con il mio avvocato, dovrò scrivere un documento che ricostruisce quanto accaduto e inoltrare un ricorso al dipartimento di detenzione contro questo “smarrimento” perché si possa andare in tribunale. Ma c’è la possibilità che il dipartimento non faccia nulla, visto che la documentazione non si trova. Questa inazione amministrativa e giudiziaria punta a una mia detenzione senza termini: se la pena non inizia, nemmeno potrà finire. È assurdo, è kafkiano. Potrei fare qualunque cosa, senza però avere la garanzia che un giorno non possa essermi contestata come reato. La colonia penale è stata un’esperienza molto dura, ma ora non mi fa più paura. Questa situazione è diversa, non c’è una strategia complicata alla base: è una normale paranoia imposta da questo Stato, per cui essere arrestati in strada e venire perquisiti nelle proprie case dev’essere messo all’ordine del giorno».
Prima era impegnata con la sua editor. Sta scrivendo un libro sul caso? Un seguito del celebre «Riot days», dove racconta la sua esperienza detentiva?
«Sì, pubblicherò una raccolta di memorie nella quale, partendo dal primo caso giudiziario e passando per quello attuale, racconterò come è cambiata la Russia negli ultimi dieci anni».
Si sente diversa dalla prima performance? Crede che la Russia abbia visto un cambiamento da allora?
«In seguito a quell’azione siamo state condannate per “teppismo e istigazione all’odio religioso”. Eppure, abbiamo ricevuto centinaia di lettere di supporto da parte dei cittadini. Questo mi ha fatto sperare che il significato di quell’azione fosse stato compreso: ancora oggi, alcune persone mi fermano in strada e mi ringraziano. Tuttavia, il lavoro della propaganda, che ha etichettato Preghiera Punk come blasfema, è stato molto efficace contro di noi, e lo è tutt’oggi. Sono certa che i russi non amino Putin e non condividano questo regime. C’è tanta frustrazione, ma la paura della repressione impedisce di trovare le forme per esprimere il dissenso. Lo Stato non vuole che le persone dicano a voce alta quello che pensano, noi siamo solo piccoli ingranaggi insignificanti della “grande Russia”. Non abbiamo il diritto di scegliere, non abbiamo voluto un terrorista come leader, non siamo seguaci di Stalin. Noi vogliamo un sistema educativo diverso, tribunali equi, pensioni per gli anziani che non siano gli attuali 150 euro al mese. Questa non è solo povertà, è l’inferno quotidiano della Russia di oggi, un incubo rispetto al 2012. Molti oppositori sono stati avvelenati da allora, come nel 2018 il componente del nostro collettivo Pyotr Verzilov, o uccisi platealmente, come è avvenuto nel 2015 per Boris Nemtsov, in pieno centro a Mosca. Scrivere una canzone o un libro non può certo cambiare questa situazione, ma non si può mai sapere chi li ascolterà o li leggerà. Il cambiamento parte dall’interno della società civile, che non detiene armi convenzionali, ma può agire sul modo di pensare».
Che cosa teme di più Putin? Quale direzione darà al Paese nei prossimi anni?
«Putin teme tutti quelli come noi, in particolare Aleksej Naval’nyj e la sua fondazione per la lotta alla corruzione. La Russia sta andando nella direzione della Cina, ne è un esempio l’importante discussione di quest’ultimo periodo all’interno della Duma per decidere la gestione centralizzata dei social media e di internet. Lo Stato vuole silenziare internet, ma non lo fa adesso perché teme che potrebbe apparire una scelta assurda. Putin e gli oligarchi hanno paura di perdere quest’unica opportunità che hanno oggi di rubare denaro e commettere i crimini che vogliono senza temere nulla».
Memorial, la più antica e autorevole organizzazione umanitaria russa, che tutela e ricorda le vittime di Stalin, viene sciolta proprio in questi giorni...
«Nel corso del 2020 tutti i media indipendenti, i centri e le organizzazioni per la tutela dei diritti umani sono stati smantellati o inclusi nella lista degli “agenti stranieri”. La sua chiusura rappresenta semplicemente una vergogna storica per il nostro Paese, è un gesto irrispettoso per le migliaia di persone che sono morte per mano del regime sovietico. Il Memorial Human Rights Center ha aiutato anche me in passato, come tanti altri prigionieri politici, e lo fa anche ora. Di questo sono grata».
Lei oggi ha 33 anni. Crede che i giovani russi vogliano qualcosa di diverso rispetto a quello che volevate voi dieci anni fa?
«Dopo la performance in cattedrale, molti giovani divennero attivisti e si unirono a noi. Per loro Putin è stato l’unico presidente, oltre a lui non c’è altro. Questo è il motivo per cui le persone hanno protestato a inizio anno, perché vogliono qualcosa di diverso. I sedicenni di oggi non guardano più la tv ma seguono i social media: TikTok, YouTube, Instagram. Su di loro non agisce il lavaggio del cervello della propaganda come è avvenuto nel mio caso. Credo che sia un segno di speranza».
Una rivoluzione è ancora possibile, come scrive nel libro «Riot days»?
«Sì, sono convinta di sì. Dev’essere il nostro cuore a guidarci. Sono necessarie costanza, dedizione e lavoro quotidiano per ottenere una trasformazione, perché anche un solo piccolo cambiamento non sarà mai per sempre. È necessario darsi da fare ogni giorno, altrimenti ciò che è stato costruito scomparirà. Quando ero prigioniera nella colonia penale, grazie al mio avvocato siamo riusciti a denunciare i comportamenti criminali di alcuni funzionari, che sono stati costretti a dimettersi. Io non avevo fatto nulla di straordinario, ma solo denunciato quello che accadeva davanti ai miei occhi».
Masha Alekhina, che cos’è la libertà?
«Temo di non avere le parole per descrivere che cosa sia. Devo tornare a lavorare su quel documento».