La Lettura, 12 dicembre 2021
I 4.800 miliardi che non salvano la Casa Bianca
Il primo anno di Joe Biden alla Casa Bianca si conclude con un paradosso difficile da spiegare. Il presidente, 79 anni compiuti il 20 novembre, ha firmato leggi che distribuiscono circa tremila miliardi di dollari. E altri 1.800 sono in arrivo con la manovra su spesa sociale e conversione energetica (Build back better). Sono cifre inferiori a quelle pianificate ma le dimensioni restano enormi, largamente superiori a quelle stanziate da Donald Trump (2.400 miliardi), da Barack Obama (830 miliardi) per fronteggiare la grande crisi del 2008 o rispetto alle risorse messe in campo da Franklin Delano Roosevelt con il New Deal negli anni Trenta (793 miliardi di dollari ai valori attuali). Eppure Biden chiude il 2021 con il tasso di approvazione più basso tra i presidenti nella storia recente, Trump escluso: 42,6%, secondo la media calcolata dal sito RealClearPolitics (aggiornata al 7 dicembre). Solo il predecessore ha fatto peggio di lui.
Anche la comunità internazionale, dopo 4 anni di confuso isolazionismo trumpiano, lo attendeva alla prova con grande fiducia. Del resto era stato proprio l’ex vice di Obama ad alzare al massimo il livello delle aspettative. Biden aveva costruito una campagna con ambizioni epocali. Uno dei suoi consiglieri è stato lo storico Jon Meacham che l’ha paragonato ad Abraham Lincoln e gli ha affidato la missione di «salvare l’anima dell’America». Per oltre un anno e mezzo, Biden ha promesso una svolta etica e culturale, prima ancora che politica, anche sul versante degli affari esteri. La sua «dottrina» si propone di rispondere alla «sfida del secolo», che non significa solo Usa contro Cina ma, più in generale, dimostrare come «le democrazie siano in grado di governare infinitamente meglio delle autocrazie».
Poi sono arrivate le prime prove e le prime delusioni. A gennaio-febbraio il presidente chiarì che gli Usa non avrebbero donato neanche una dose di vaccino all’estero: «Prima gli americani». A maggio l’amministrazione non riuscì a fermare l’offensiva del premier israeliano Benjamin Netanyahu nella Striscia di Gaza e da allora non ha fatto nulla per rilanciare la trattativa; a giugno la vice Kamala Harris concluse il tour diplomatico nel Centro America rivolgendosi così ai migranti: «Non venite, perché vi mandiamo indietro»; a luglio Biden ha promesso aiuti ai cubani in rivolta ma le comunità degli esuli ancora gli rimproverano di fare troppo poco. Infine il frettoloso e catastrofico ritiro dall’Afghanistan a metà agosto. Rimarranno nella memoria collettiva quelle immagini dell’aeroporto di Kabul, gli uomini caduti come zavorra da un velivolo in fuga. In quelle settimane di agosto e settembre tra i diplomatici del mondo si diffuse l’idea che, in concreto, l’America Firstdi Biden non fosse così diversa da quella di Trump. Un paragone urticante per il presidente e per il partito democratico.
Forse anche per questo nell’ultimo scorcio dell’anno s’è assistito a un cambio di passo. La Casa Bianca ha promosso il dialogo multilaterale sul clima, coinvolgendo anche Cina e Russia in vista della Conferenza di Glasgow; ha archiviato lo scontro commerciale con l’Unione Europea, eliminando i dazi americani del 25% sull’import di acciaio e del 10% sull’alluminio. Inoltre, a margine del G20 di Roma, il 30 e 31 ottobre scorso, Biden ha concordato con i leader di Regno Unito, Francia e Germania come rilanciare il confronto sul nucleare con l’Iran. Infine, è cronaca di questi giorni, il presidente Usa ha consultato il formato Quint della Nato, di cui fa parte anche l’Italia con Regno Unito, Francia e Germania, in vista del summit virtuale con Vladimir Putin sulla questione Ucraina, che si è svolto il 7 dicembre. Come dire: con i partner è necessario dialogare e confrontarsi prima e non dopo scelte strategiche che hanno conseguenze planetarie.
In ogni caso il governo Biden si è concentrato soprattutto sul versante interno. Il presidente si è misurato subito con la pandemia, con un doppio vantaggio. Nel corso del 2020 le strutture del governo Trump avevano lavorato molto bene sui vaccini, finanziando al buio sperimentazione e produzione dei farmaci. Alla fine del 2020 non solo l’America ma gran parte del mondo poteva contare sui prodotti anti-Covid affidabili, come quelli messi a punto da Pfizer e Moderna. Un’operazione rovinata politicamente dall’atteggiamento assurdo di Trump. Biden poteva ripartire valorizzando i risultati già raggiunti dagli scienziati e dalle aziende, senza l’ostruzionismo del suo predecessore. La campagna vaccinale ha preso velocità nei primi mesi dell’anno ma si è presto arenata in quasi tutti gli Stati del Sud e del Midwest, governati dai repubblicani. Greg Abbot e Ron DeSantis, governatori di Texas e Florida, hanno trasformato gli slogan trumpiani in pratiche comuni e talvolta addirittura in leggi: niente mascherine, nessuna limitazione per i non vaccinati. Nonostante gli sforzi – anche di fantasia, come la proposta di regalare 100 dollari a chi si fosse immunizzato – Biden non è riuscito a sfondare il muro dei no vax o semplicemente dei riluttanti. A oggi la percentuale di popolazione totalmente vaccinata è pari al 60%, contro il 70% dell’Unione europea e il 77% dell’Italia.
In parallelo l’indubbia ripresa economica, con il recupero di circa tre quarti dei 22 milioni di posti di lavoro persi durante la pandemia, ora è insidiata dalla tumultuosa crescita dell’inflazione, già ben oltre l’obiettivo di stabilità del 2% fissato dalla Federal Reserve. Sono questi gli elementi che annunciano un 2022 complicato per il presidente democratico. Economia, prezzi, Cina, Russia, Iran e, sullo sfondo, le mosse inquietanti di Donald Trump che continua ad agitare una parte del Paese, senza avere mai ripudiato l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio scorso. Anzi.