Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  dicembre 12 Domenica calendario

La nostra paura forgiata in laboratorio

L’arrivo della variante Omicron ha visto l’Europa scivolare verso nuove restrizioni, dal super green pass in Italia a parziali lockdown in altri Paesi: e alla fine anche la Gran Bretagna si è accodata, con Boris Johnson che ha appena introdotto una forma (ancora molto limitata) di passaporto vaccinale. Ma se a Londra i no vax praticamente non esistono, limitati a qualche frangia di fanatici senza nessuna visibilità, il dibattito su lockdown e green pass è invece molto articolato. I giornali vicini ai conservatori, dal «Telegraph» allo «Spectator » al «Daily Mail», sono su posizioni fortemente critiche nei confronti di approcci restrittivi (e lo scetticismo verso il green pass è trasversale, dai laburisti ai liberaldemocratici a una grossa fetta dei Tories, così che il governo Johnson è riuscito a introdurlo solo per parare gli scandali che assediano il suo governo). 
È in questo contesto che si colloca A State of Fear («Uno Stato di paura»), il libro dell’artista e fotografa Laura Dodsworth, uscito qualche mese fa e diventato un best seller del «Sunday Times»: l’autrice denuncia l’uso della nudge theory, la «teoria della spintarella» da parte del governo britannico, che avrebbe usato la paura come arma psicologica per indurre la popolazione a seguire le norme anti-Covid, con conseguenze nefaste per la democrazia. 

Com’è arrivata a questo lavoro, dopo i suoi libri di fotografia dedicati all’esplorazione della sessualità?
«Il libro può sembrare diverso dai miei precedenti, ma in realtà segue una traiettoria: sono interessata alla psicologia profonda e ai tabù. I mei libri precedenti contengono fotografie ma non sono davvero libri fotografici: le foto sono segnali visivi lungo storie di politica, potere, sessualità e genere, maternità e paternità. Ciò che mi ha attratto dopo era provare a capire perché la gente si sia comportata in un certo modo quando la pandemia è cominciata. Ho studiato letteratura e linguistica all’università: così ho posto attenzione al linguaggio che i politici usavano, a titoli e articoli dei giornali, e ho cominciato a riflettere sull’approccio mirato alla paura basato sulla scienza comportamentale. Dalle minute del Sage (il gruppo di consulenza scientifica del governo) relative alla riunione del 22 marzo 2020, il giorno precedente il primo lockdown, emerge l’orientamento che la percezione del livello di minaccia personale dovesse essere accresciuta per garantire l’osservanza delle regole, usando messaggi emotivi che colpissero. Gli scienziati comportamentali sapevano che la gente era consapevole che si fosse tutti a rischio. ma ognuno doveva essere spaventato singolarmente per obbedire al lockdown». 
Perché era necessario indurre la paura? Non bastava quello che vedevamo, per esempio le colonne di camion che portavano le bare via da Bergamo? 
«Dipende da come definiamo la necessità. C’erano piani per fronteggiare una pandemia a livello governativo che non raccomandavano un lockdown, anzi era controindicato: non era pensabile, non era mai stato fatto prima. Che cosa poteva persuadere la gente a stare a casa, a non lavorare, a non andare ai servizi religiosi, a non socializzare, a non fare sesso, a non vedere la famiglia né fare visita ai parenti anziani, a non andare in ospedale? Una raccomandazione degli scienziati comportamentali è stata che bisognava usare la paura. Il governo probabilmente temeva che le persone non avrebbero seguito le regole: altri Paesi hanno schierato i soldati nelle strade, un’applicazione draconiana dei lockdown, ma qui ci vantiamo del policing by consent (fare polizia con il consenso), non abbiamo agenti armati, facciamo le cose in un certo modo. Dunque la scienza comportamentale è stata usata per indirizzare la gente». 
Lei si è focalizzata sulla «nudge unit», «l’unità per la spinta» in seno al governo. Come funziona? 
«C’è molta poca trasparenza su questo. C’è un team di consiglieri, denominato Spi-B, che ho intervistato per il mio libro. Ma il team comportamentale è del tutto separato, è un’azienda privata messa su sotto il governo di David Cameron e sulla quale non c’è nessuna trasparenza: non hanno neppure voluto essere intervistati. Ma se ammettiamo che queste misure siano accettabili in questa crisi, saranno accettabili in ogni altra circostanza: e tuttavia non c’è nessun mandato democratico, come nazione non abbiamo mai detto: “Sì, vogliamo essere manipolati subliminalmente verso obiettivi di politica senza dibatterli, discuterli, votarli”. Adesso hanno cominciato di nuovo con il messaggio su “salvare il Natale”. Stiamo vedendo il messaggio su “fare la terza dose per salvare il Natale”, “dobbiamo fare tutti la nostra parte”. Da dove viene questa idea di “salvare il Natale”? Dall’idea che un’importante festa religiosa e culturale, che abbiamo celebrato per millenni, possa essere portata via. Lo hanno fatto già l’anno scorso e chiaramente pensano che abbia funzionato bene, perché lo stanno rifacendo quest’anno. È un’altra forma di nudge: se tu fai questo, noi non faremo quello». 

Che tipo di futuro può essere immaginato per la società, se si andasse avanti su questa strada?
«Lo vedo come qualcosa di molto pericoloso, una profonda minaccia alla democrazia. A volte i politici vogliono fare cose che la popolazione non vuole: ma viviamo in una democrazia, votiamo per i partiti sulla base di ciò che c’è nel loro programma. Se vogliono portare avanti qualcosa che è più difficile, ci dovrebbe essere un dibattito: sui media, in Parlamento. Ma se usi il nudge tu scavalchi il dibattito e il Parlamento, è un modo per far fare di soppiatto alla popolazione ciò che vuoi, invece di passare attraverso il difficoltoso processo democratico. Quanto è accaduto nella gestione della pandemia è una mancanza di rispetto verso la gente: si suppone che non siamo capaci di prendere decisioni razionali. Il nudge non è un meccanismo neutrale verso un obiettivo buono o cattivo, il nudge come meccanismo in sé è molto discutibile a livello di governo. Pago le tasse perché il governo attui ciò per cui ho votato, non per manipolarmi subliminalmente a fare cose che pensa siano le migliori, senza dibatterle e votarle». 
In Italia anche il green pass è stato esplicitamente presentato come un incentivo per indurre la popolazione a vaccinarsi. Che cosa c’è di sbagliato?
«La vaccinazione è un intervento medico, non ci dovrebbe essere alcuna coercizione e i vaccini non dovrebbero essere il tramite per partecipare alla società oppure ottenere un lavoro. È una questione di consenso informato. Che cosa facciamo con chi ha obiezioni religiose? O con chi è stato infettato e ha una immunità naturale? Che cosa facciamo con chi non ha fiducia nel governo? Non dimentichiamo le minoranze etniche, che hanno buone ragioni per non fidarsi dei programmi dei governi. Tutti questi dovrebbero essere privati del diritto al lavoro finché non acconsentono? Dipende da qual è la visione della società: la mia non prevede che le persone siano costrette a subire un intervento medico come condizione per partecipare o lavorare. Alcuni possono vedere questa come una società gloriosa, ma dov’è il dibattito? È stato tutto imposto». 
In Italia hanno però presentato il green pass proprio come uno strumento per recuperare la libertà.
«È una distorsione orwelliana del linguaggio. La libertà non può essere scambiata, né comprata e venduta. Non è un passaporto per la libertà, è un passo che devi fare per ottenere un privilegio garantito da un governo paternalistico. Ma questa non è libertà: se devi fare ciò che ti dice il governo per ottenere la tua libertà, puoi essere intrappolato in un meccanismo infinito di esca e scambio».