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 2021  dicembre 12 Domenica calendario

L’umanità è figlia del legno

Sembra di vivere Sotto il vulcano, per evocare il romanzo di Malcolm Lowry (Feltrinelli, 1961) che dà ora il titolo alla neonata rivista diretta da Marino Sinibaldi. Viviamo la crisi ambientale e pandemica con un misto di paura e senso di colpa e assistiamo a continue «scosse», a un cambiamento veloce. «Stiamo vivendo in una sequenza di evoluzioni rapidamente intercalate, una sorta di giostra in accelerazione. Questa è l’era esponenziale. Il tempo per noi è mutato», scrive Colum McCann nel primo numero di «Sotto il vulcano». Uno dei cambiamenti maggiori è la crisi e forse la fine dell’antropocentrismo. Di colpo, la storia dell’umana specie non ci appare più come una conquista della sua intelligenza, come un concatenarsi di pensieri filosofici, come un viaggio tutto a bordo di una macchina spinta dal vapore creativo delle idee, dalle rivoluzioni, dalle lotte di potere tra gli umani. Nella storia fanno irruzione i non umani: alberi e animali, elementi come l’acqua, l’ossigeno, le pietre e ovviamente il clima, il tessuto delicato che ci lega tutti in una infinta catena di interdipendenze. 

Nel saggio  L’Età del legno (Einaudi), Roland Ennos adotta una prospettiva «lignocentrica» con l’obiettivo ambizioso di rileggere la storia dell’umanità. Per lo studioso inglese, specialista delle proprietà biomeccaniche delle piante, occorre liberarsi dal «condizionamento dettato dall’opinione comune che vede la storia dell’umanità contraddistinta dal rapporto dell’uomo con tre materiali: la pietra, il bronzo e il ferro». Il legno «non è un’obsoleta reliquia del nostro lontano passato», ma è stato il vero protagonista dell’avventura umana. Il processo che dai primati condusse agli ominidi ha avuto luogo infatti, in gran parte, sulla canopia della foresta, la parte alta degli alberi. Le nostre mani e soprattutto la nostra pelle capace di aderire anche a superfici lisce e umide come quelle dei rami, si sono formate là in alto, sulle chiome delle foreste. Passarono circa due milioni di anni infatti tra le prime forme di bipedismo e lo sviluppo di uno stile di vita terrestre, che a quanto pare solo Homo erectus adottò in modo stabile. La canopia offriva cibo e sicurezza, a patto di saper costruire ripari, come i celebri «nidi» di rami intrecciati. Se a terra scorrazzavano i mammiferi predatori, occorreva avere lunghe braccia e una buona presa con le mani per non cadere, come avvenne invece alla celebre «Lucy», l’australopitecina vissuta 3,2 milioni di anni fa nell’attuale Etiopia e morta, sembrerebbe, proprio per le conseguenze di una caduta dagli alberi.
Incubatori di umanità, gli alberi non abbandonarono l’uomo neppure dopo la cacciata dall’eden delle chiome in seguito a marcati cambiamenti climatici, perché il legno si incaricò di «svezzare» l’umanità, fornendo robusti bastoni da scavo, con cui dissotterrare le radici, e il fuoco, con cui tenere lontani i predatori e con cui cuocere i cibi, ampliando le possibilità digestive e la tipologia di alimenti. Anche la perdita progressiva del pelo, dovuta con tutta probabilità al tentativo di liberarsi da indesiderati e fastidiosi infestanti, fu resa possibile dal fatto di dormire in ripari e capanne di legno capaci di garantire una temperatura adeguata per i «nuovi» corpi quasi nudi. Una lunga età del legno avvolge e accompagna l’uomo. Ormai con i piedi saldamente per terra, l’essere umano continuò ad affidarsi al legname: le sue caratteristiche – resistenza alla compressione, durezza, ma anche «punti deboli» che consentono la realizzazione di assi – permisero di produrre attrezzi per costruire abitazioni, lance, archi...
Se l’archeologia ha enfatizzato l’uso della pietra e dei metalli, dando al barone John Lubbock l’ispirazione per la celebre distinzione tra paleolitico e neolitico (Prehistoric Times, 1865), secondo Ennos «gli utensili di pietra non sono stati poi così innovativi o centrali per la vita dell’uomo primitivo». In fondo la pietra servì soprattutto a migliorare e ampliare l’uso del legname. La rivoluzione dei metalli, ricavati dalle rocce proprio grazie al fuoco e al legname, rese possibile una nuova accelerazione nel disboscamento delle foreste. 
Da allora, e fino alla rivoluzione industriale e all’uso dei combustibili fossili, il legno non solo continuò a svezzare l’umanità, ma indicò all’essere umano i limiti ecologici del mondo in cui abitava: dalla costruzione delle città ai viaggi per mare a bordo di navi realizzate con le tavole di legno alle ruote per trasportare via terra carichi pesanti, al riscaldamento in aree fredde, fino alla realizzazione dei tetti di templi e basiliche, tutto passava attraverso le mani dei boscaioli e attraverso la capacità dei boschi cedui di riprodurre il legno, visto che le foreste primarie si consumavano a ritmo crescente. «Dal legno storto dell’umanità non si può fabbricare nulla che sia veramente dritto»: il celebre aforisma di Immanuel Kant in fondo è più che una metafora, perché dritta o storta che sia l’umanità fu fatta dal legno. E ancora il controllo del legno e l’ampia disponibilità di tronchi alti e dritti per costruire gli alberi di navi sempre più veloci e capienti, fu al centro del processo di colonizzazione del mondo da parte delle società europee. L’indipendenza americana, per esempio, mise in crisi il Regno Unito proprio per l’improvvisa carenza di legname: ne fece le spese anche James Cook che, a quanto raccontò Marshall Sahlins nel celebre Isole di storia(Einaudi, 1986), fu ucciso alle Hawaii dai nativi nel 1789 dopo che l’albero maestro della sua nave si ruppe in una tempesta, costringendolo a un ritorno indesiderato sulle isole. I suoi ufficiali di bordo si erano lamentati delle pessime forniture di legno con cui erano state costruite le imbarcazioni. 
Neppure oggi è tramontata l’età del legno, nonostante metalli e idrocarburi. È tempo di riconoscere che la soggettività e le proprietà dei non umani hanno fatto la storia insieme a «noi». È tempo di riconoscere quelle che Tim Ingold chiama Corrispondenze (Raffaello Cortina, 2021): le somiglianze, le connessioni, le convivenze, le relazioni, le interdipendenze che ci legano ai non umani. Non a caso il libro di Ingold si apre con un capitolo intitolato Storie dal bosco. «Esiste un esempio migliore di convivialità, nel senso del vivere e del crescere insieme, di quello degli alberi di un bosco? Entrate dunque nel bosco come in una biblioteca o in una cattedrale, con una certa riverenza. Ogni tronco – ogni codex come gli antichi chiamavano sia i tronchi sia i libri – custodisce la sua storia; non però tra le sue fodere, come per i libri, ma in alto, con le volte a ventaglio del tetto della cattedrale o i ramificati decori delle sue vetrate. Per leggere la storia, dovrete tendere il collo». Tendere il collo per vedere oltre la selva umana.