La Lettura, 12 dicembre 2021
Storia degli ebrei in 90 date
In viaggio in novanta date, dal 1207 a.C., anno della vittoria del faraone Merenptah contro «un certo popolo di Israele», al 2006, anno della proclamazione della Giornata europea della memoria. È il lungo percorso della Storia mondiale degli ebrei (Laterza), un’opera che riprende l’Histoire des Juifs, apparsa l’anno scorso in Francia per l’editrice Puf. Non una semplice traduzione, ma per molti versi un’opera differente, integrata da dieci voci in più e da un diverso finale. Ne parliamo con il curatore, Pierre Savy.
Fornire al lettore uno sguardo complessivo sulla vicenda degli Ebrei lungo tremila anni è uno sforzo ambizioso.
«Certamente ambizioso, con uno sguardo aperto e un’impostazione di fondo, l’Histoire mondiale de la France (Seuil, 2017), che ha avuto diverse prestigiose continuazioni, tra cui la Storia mondiale dell’Italia diretta da Andrea Giardina. Ho cercato, con l’aiuto di Katell Berthelot e Audrey Kichelewski – e, per l’edizione italiana, di Anna Foa – di colmare le distanze, cercando di stimolare l’attenzione del lettore con un approccio accattivante, con lo sforzo anche di uscire da alcuni condizionamenti culturali. Non a caso l’ouverture del volume riguarda la prima menzione non biblica del popolo ebraico su una stele fatta installare dal faraone Merenptah, il successore di Ramsete II».
Date da piluccare, come lei avverte nell’introduzione, che permettono di girovagare nel libro a piacere.
«È uno dei pregi di questo modello. Poter penetrare il libro seguendo il gioco di temporalità differenti, con un percorso di lettura più agevole – e di sicuro più divertente! – di un libro classico. Le date aiutano molto: costituiscono, senza dubbio, un’eccellente porta di ingresso per penetrare storie le cui cronologie sono spesso disperatamente complicate. Una successione di date che però non vanno osservate in maniera teleologica, con un’immaginaria linea del tempo che confluisce verso i cataclismi del XX secolo. Ma tratteggiano, invece, proprio la diversità e la varietà delle storie, con la molteplicità dei punti di vista che ciascun autore ha voluto esprimere. Autori, vorrei sottolinearlo, di sensibilità e competenza diverse, capaci di fornire un quadro non esaustivo sulla storia degli ebrei, ci mancherebbe, ma il migliore possibile dello stato attuale delle ricerche. Con date straordinarie su cui riflettere: come, ad esempio, quella del 1935 riguardante Regina Jonas, la prima donna rabbino ordinata dalla Conferenza dei rabbini liberali di Germania. Una storia riscoperta solo negli anni Ottanta del secolo scorso».
Veniamo ora ad uno dei nodi più problematici di questo libro, che pone subito una distanza: quella di non voler tracciare una storia dell’ebraismo ma una storia degli ebrei. Una differenza che mi sembra sostanziale.
«Sì, davvero sostanziale. Lo sforzo è stato quello di mettere in luce la vicenda di una comunità di donne e uomini uniti – o, sottolineo, anche non uniti —, da una fede, da un’appartenenza, da pratiche culturali eccetera. Perché ciò che è risultato più difficile nella composizione del libro (e che resta la domanda di fondo che lo anima) è: di chi stiamo scrivendo la storia? Del popolo ebraico? Degli Ebrei con la iniziale maiuscola? O degli ebrei con la minuscola, espressione con la quale intendere solo le persone di religione ebraica? E le cose si complicano. Perché esiste una religione ebraica, ma anche un popolo ebraico. E l’uso del termine ebrei per designare milioni di donne e uomini lungo un arco cronologico di tremila anni come qualcosa di univoco, beh, anche questa è una forzatura discutibile. Se immagino la dimensione dell’esperienza ebraica dell’epoca di Salomone e la comparo a quella di un ebreo di Brooklyn del XXI secolo, il divario di vita, esperienze e condizioni è enorme. Eppure, esiste, e persiste, lo stereotipo degli ebrei considerati simili ad un oggetto capace di attraversare, come un meteorite inscalfibile, la storia dell’umanità. Sempre identici alla loro origine. Ma, le cose sono molto più sfumate, indefinite: la vita ebraica della diaspora ha apportato, col contatto con gli altri, innesti fecondi. Basti pensare allo yiddish, che è una lingua soprattutto germanica. O al meno conosciuto bagitto degli ebrei di Toscana. O alla cucina ebraica, che adatta agli usi ebraici prodotti e ricette locali: penso ad esempio alla tradizione romana».
Mi spinge a dire, allora, che non esiste una cultura ebraica, ma mille culture, mille giudaismi, che si incarnano in modo differente.
«Ci sono sefarditi e ashkenaziti, ebrei tedeschi, polacchi, austriaci, italiani, argentini. Di New York e di Chicago, di Gerusalemme e Mosca. Una diversità che è indissociabile dall’ebraismo. Tuttavia, qui esplodono le contraddizioni. Perché un plafond comune comunque c’è, insito nell’idea stessa di esperienza ebraica, ossia nel fatto che questo popolo pensa di perdurare da millenni, anche basandosi su costruzioni culturali e miti. Ma alla base di questa convinzione c’è qualcosa di vero, ragioni perfettamente storiche e identificabili, presenti, per fare un semplice esempio, nello sforzo inane di conservare, spesso tra mille difficoltà, norme, rituali, tradizioni, feste. In poche parole, una singolarità identitaria. Un popolo che, sul piano religioso, sin dalle origini ha operato una rottura radicale con i propri vicini, dando vita a quella “distinzione mosaica”, per usare le parole di Jan Assmann, che ha imposto con zelo ai propri membri un senso originario di responsabilità e di appartenenza, tante volte matrice di quel rifiuto netto di cui questo popolo disperso e minoritario è stato fatto oggetto nella storia».
Vuole dire, insomma, che la principale spiegazione della sopravvivenza ebraica va cercata proprio in questa combinazione tra forte sentimento di appartenenza e alterità e notevole integrazione, che arriva talvolta fino all’assimilazione?
«Proprio così. Nel senso di unità e diversità. Appartenenza pensata sul doppio modello di una parentela comune (la discendenza da Giacobbe, che ebbe come altro nome Israele) e di una provenienza geografica (la Giudea). Di un popolo che non ha alcuna coerenza genetica, ma si fonda su una realtà storica, di elementi culturali, di una ricca eredità di memorie e del desiderio di vivere insieme, per parafrasare Ernest Renan. Popolo che si inserisce, si badi bene, in una dimensione teologica, come popolo eletto cui viene promessa una terra, conquistata e perduta. Dove il legame costante con il ricordo di quella terra (“l’anno prossimo a Gerusalemme” si recita nelle due sere di Pasqua), la sua conservazione nella memoria è uno degli elementi essenziali della vita religiosa ebraica».
Una storia resiliente, allora
«Una storia che perdura, simile a una curva con innumerevoli pieghe di serenità o stille estremamente dolorose, con fasi terribili, come quella tra 1881 e 1945. Con una lista che, è chiaro, non si interrompe alle nostre novanta date che vogliono essere soprattutto lo stimolo per nuove esplorazioni e nuove curiosità. È questo il principale obiettivo del nostro libro».