Specchio, 12 dicembre 2021
Intervista all’artista Miquel Barceló
Miquel Barceló è uno dei più celebri artisti contemporanei spagnoli, famoso per i dipinti simili a dei rilievi e per le creazioni in bronzo e ceramica. L’abbiamo incontrato nel suo studio parigino alla vigilia dell’apertura della sua mostra di ceramiche alla Galerie Thaddaeus Ropac, alla Ely House di Londra.
Lei è nato nel 1957 sull’isola di Maiorca. Come è iniziata la sua formazione da artista?
«All’inizio degli Anni 80 i miei quadri venivano visti a New York, Zurigo o Milano come punk art, insieme ai neoespressionisti tedeschi o alla Transavantgarde. Io però sono sempre stato una figura isolata, mai parte di un gruppo, un’isola, e non mi è mai piaciuto venire chiamato un nouveau sauvage perché non ero né nuovo, né selvaggio».
Come si viveva in Spagna sotto la dittatura di Franco?
«Pensavo solo a scappare, ma negli Anni 70 non avevo il passaporto, non lo davano a chi non aveva fatto il servizio militare. Infine decisero che ero psicotico, uno schizofrenico, e così ho potuto evitare la leva. Appena ottenuto il passaporto, ho preso un treno per Parigi, Amsterdam, Londra… ero nato su un’isola, avevo bisogno di muovermi. Gli isolani o girano il mondo o non escono mai dall’isola, come mio fratello che odia viaggiare».
La sua vita è piena di contraddizioni?
«La contraddizione è il diritto dell’artista. Sono una contraddizione vivente. Amo il nero al mattino e il bianco nel pomeriggio, e ci credo in entrambi i casi. Lo faceva anche Picasso Era spagnolo, basso, e faceva ceramiche, come me! Lo ammiro tantissimo, è fantastico».
Perché trova così importanti le pitture rupestri di Chauvet e Lascaux ?
«Chauvet ha 37 mila anni, la più antica che conosciamo. Lascaux ne ha 17 mila, Altamira 15 mila. È pazzesco quanto sono antiche. Mi sento vicino all’artista di Chauvet, potrebbe essere mio fratello. Ha dipinto un gruppo di leoni, ciascuno con la propria personalità, sembrano dipinti da Piero della Francesca».
È attratto dagli animali?
«Sì, e ci vivo anche, a Majorca ho dei bellissimi tori, 25 maiali, 20 agnelli, tanti piccioni e polli e tacchini enormi. È una fattoria, e ci sono tanti cani, ma io preferisco dipingere un solo cane, quello che è sempre con me, Fosca. I cani finiscono per assomigliare a te e io amo fare ritratti dei miei animali perché sembrano me, ma ritraggo anche mia madre, perché le somiglio, mia figlia e mio figlio. È bello dipingere quello che ci circonda ».
Il suo altro amore è il mare?
«Il mare è come la pittura. Si sta da soli, in silenzio, si guarda, si controlla il respiro. È come una lunghissima meditazione. Qualche anno fa ho iniziato le meditazioni yoga ed è esattamente quello che facciamo nel mare, controllando il respiro durante lo snorkeling o le immersioni. Non faccio spesso yoga, ma le immersioni e lo snorkeling quasi tutti i giorni, tranne quando il tempo è davvero brutto».
Ha sempre lavorato con la ceramica?
«Sì, circa un terzo del mio tempo lo dedico alle ceramiche. È come costruire e dipingere allo stesso tempo.
Lei fa lavori anche in bronzo, come il suo "Big Elephant" in Union Square, a New York.
«L’ho fatto in gesso e poi è stato fuso in bronzo. A volte il bronzo è più facile per le opere grandi, ma le ceramiche le faccio direttamente. È per questo che i pittori amano la ceramica, è diretta ».
Lavora ogni giorno?
«Sì, lavoro ore e ore a fare ceramiche, incisioni, dipinti. Mi piace passare da una cosa all’altra, senza un progetto. Il mio piacere più grande, al mattino, è decidere all’ultimo momento. È una sensazione di libertà. A volte lavoro per ore e poi cancello tutto. È una sensazione bellissima, dipingere per ore e tornare a casa stanco, sporco e a mani vuote».
Va spesso nei musei?
«Se esco dallo studio è per ammirare l’arte. Posso passare settimane nei musei di Pietroburgo, e ogni volta che vado a Madrid trascorro 4-5 ore al Prado. A Londra ho trascorso tutto il tempo nella National Gallery. L’arte si alimenta di arte».
Ha un legame speciale con l’Africa?
«Sono capitato per caso nel Mali, uno dei posti peggiori sulla terra, e mi sono innamorato. È così pieno di bellezza e animismo. Ho imparato a fare ceramiche dalle donne del Mali, perché in Africa i sarti sono maschi e le ceramiste femmine. Attraverso l’Africa ho capito meglio tutto il resto. È stata una medicina contro tutto: tornare alle radici, toccare la terra. Per anni ho trascorso quatto mesi in Africa, quattro a Parigi e quattro a Majorca. Tre stagioni. Oggi mi divido tra Majorca e Parigi, e passo un mese in Asia e un mese in Kenya».
Dove va in Asia?
«Ho uno studio nel Sud della Thailandia. Un posto davvero selvaggio, non c’è nulla, né ristoranti, né alberghi. È perfetto per dipingere: ci sono solo il mare, le palme e il nulla».
Dove si sente più a casa?
«La mia città è Parigi. Passo parecchio tempo a Barcelona, New York, Madrid, Londra, anche in Italia, ma non torno mai, mentre ritorno sempre a Parigi. Amo Majorca, ma Parigi è la città che ho scelto».
Non ha mai desiderato fare altro?
«Abbiamo bisogno di arte. È sempre nuova. Quando Cezanne dipinge una mela è la prima mela della storia, e quando Giacometti dipinge la stessa mela sul tavolo è ancora la prima mela della storia. Quando dipingo un cavallo o un cane, sono il primo artista nella storia a farlo, anche se milioni l’hanno fatto prima di me, spinti dalla stessa necessità profonda di essere, di esistere».
Qual è lo stato dell’arte oggi?
«Come sempre, si tratta di trovare i migliori. Perfino nelle caverne c’era della pessima arte. Potrei cancellare un mio quadro e dipingerne un altro sopra, perché no? L’arte è una grande lezione di umiltà».
Lavora da solo?
«Sempre, è il mio privilegio, lavorare con le mani è un nostro grande bisogno».
Non ha momenti di vuoto?
«Sì, ma la distruzione è un buon rimedio. Distruggere un dipinto è una buona cosa. Credo di aver distrutto un numero di dipinti pari a quelli realizzati. Fa parte del mestiere».