Specchio, 12 dicembre 2021
Ritratto di Tim Burton
Quando è venuto alla Festa del Cinema a ricevere il premio alla carriera, Tim Burton mi ha chiesto di poter visitare la Cappella Sistina: era accompagnato a Roma dai figli William Raymond e Nell, ed era entusiasta di mostrargli «i tesori della città più bella del mondo». Nel corso di quelle visite, mi sono reso conto quanto siano eclettici i suoi gusti, e quanto riesca ad appassionarsi, con assoluta sincerità, a canoni estetici molto lontani da quelli ai quali ci ha abituato: si è commosso di fronte al capolavoro di Michelangelo, ed è rimasto a bocca aperta quando ha attraversato il corridoio con le mappe geografiche, continuando a ripetere «capisco perché Roma è la città eterna», con l’entusiasmo di un bambino di fronte alla meraviglia di un mondo nel quale sembrava non potessero esistere le ingiustizie e il dolore.
È quello a cui ho pensato quando gli ho mostrato una sequenza di Edward mani di forbice, il suo indimenticabile personaggio che ferisce ogni volta che tenta di abbracciare. Alla domanda su come fosse nata una creatura del genere, a sua volta piena di cicatrici, mi rispose: «Quel personaggio sono io, ero esattamente così». Non volle aggiungere altro, ma la dichiarazione colpì il pubblico che fece partire un lungo, caloroso applauso per un disagio esistenziale che forse non si è mai del tutto sopito. Nel corso dello stesso incontro, abbiamo parlato anche di Ed Wood, il film dedicato al peggior regista della storia del cinema. C’è un momento, nella pellicola, nel quale Wood incontra per caso Orson Welles, e scopre che i problemi che stava vivendo quel genio del cinema in fondo non sono molto differenti dai suoi: «non sai quante volte, mi sono trovato in quella situazione: per ogni cineasta ogni momento è una battaglia».
Ho scoperto in quell’occasione che Ed Wood è anche il suo film preferito, ed è stato inevitabile riflettere ancora una volta sulla sua attrazione nei confronti del diverso e dell’emarginato. Nella scena in cui incontra Welles, Wood è vestito da donna, cosa che per lui era abituale: «Quello che per una persona è follia, per un’altra è realtà», mi ha spiegato, e nella dinamica tra Ed Wood e Bela Lugosi c’è molto del rapporto tra lui e Vincent Price, al quale dedicò il suo primo cortometraggio Vincent e poi chiamò a interpretare il ruolo del creatore di Edward Mani di Forbice.
Tim è nato a Burbank, il sobborgo di Los Angeles dove si trovano i teatri di posa della Disney, Universal e Warner Bros 63 anni fa, e quando ne ha compiuti dodici è andato via di casa per andare a vivere con la nonna. Quattro anni dopo ha cominciato a vivere da solo, e ripensando a quei giorni ricorda: «Certo, non avevo molti amici; ma potevo farne a meno, perché in giro c’erano abbastanza film interessanti e ogni giorno era possibile vedere qualcosa di nuovo, e che in qualche modo mi parlava».
Scopre di avere un notevole talento per il disegno e un’innata passione per i film con personaggi mostruosi, innamorandosi parallelamente del cinema italiano, ma insieme a Fellini, che tuttora considera un imprescindibile punto di riferimento, rimane incantato dai film di Mario Bava. A 18 anni vince una borsa di studio della Disney ed entra a far parte degli animatori, ma si tratta di un’esperienza deludente: «Era il periodo di massima decadenza per la Disney, e io mi trovai a disegnare, male, alcune animazioni di uno dei film meno riusciti: Red e Toby. Era una vera e propria tortura, specie il dover disegnare tutte quelle bestioline ammiccanti». Dopo Vincent, del tutto autobiografico, e una versione orientale della favola di Hansel e Gretel, riesce a ottenere dalla Disney i finanziamenti per Frankenweenie, che viene notato da Paul Rubens, il quale gli offre di dirigere Pee-wee’s Big Adventure, che ottiene un buon incasso.
Da quel momento, con poche eccezioni, la sua carriera è stata costellata da enormi successi, artistici e commerciali, tra i quali anche Batman, con Jack Nicholson nel ruolo del Joker, e Batman - Il ritorno, nel quale Danny De Vito vestiva i panni del Pinguino. Pochi registi sono riusciti a combinare le proprie ossessioni con le esigenze espressive e commerciali di un grande studio, e allo stato attuale i suoi film hanno già incassato più di quattro miliardi di dollari. Nel corso della carriera si è cimentato ripetutamente con l’animazione, in collaborazione con Harry Selick, ma forse nulla ne rivela l’intimità come la raccolta di poesie Morte malinconica del bambino ostrica, nel quale sono raccontate storie di bambini mostruosi, uno dei quali è divorato dal padre ogni notte per poter aumentare la propria potenza sessuale. Su questo non ho osato chiedere nulla, e mi sono limitato a esaltare invece su come sia riuscito a rendere personali progetti nei quali è subentrato in corso d’opera, come Big Fish, che doveva essere diretto da Steven Spielberg, o anche Sweeney Todd, creato dal talento di Stephen Sondheim. È divertito quando ricorda che il suo più grande incasso è Alice nel paese delle meraviglie, e la retrospettiva che gli ha dedicato il MoMA, ed è intimidito al pensiero che a oggi, la mostra sia quella di maggior successo della storia del museo.
Dopo il nostro incontro è andato a Londra dove vive in una villa collegata solo da una cucina con quella di Helena Bonham Carter, madre dei due figli, ora adolescenti. La sera prima di partire mi ha parlato della sua passione per Bollywood, e ripetuto quanto ami rendere attuali le favole: «Per me i film sono una forma di psicoanalisi molto costosa». Poi, la sera prima di salutarmi mi ha raccontato dell’emozione di quando ha visto in televisione, quando aveva dieci anni, Il cervello che non voleva morire, di Joseph Green. «C’era un tipo a cui avevano strappato un braccio e il sangue che copriva un intero muro. Io non trovo però che tutto ciò sia negativo, ma catartico».