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 2021  dicembre 12 Domenica calendario

Intervista a Michele Serra

C’è da chiedersi, al punto in cui siamo, se lontani da tutto non saremmo migliori. Non lontani dalle nostre case, dalle città che abitiamo, dai luoghi affollati del lavoro e dello svago, seppure – in alcuni degli ultimi romanzi come Osso. Anche i cani sognano o Le cose che bruciano (entrambi per Feltrinelli)– è anche questo che Michele Serra sembra suggerire. Ma lontani piuttosto dalle piazze virtuali in cui immergiamo le nostre vite e a cui consegniamo quel che osiamo dire e non dire. Lontani dai condizionamenti degli attacchi organizzati, da una polarizzazione del pensiero che non spiega e non comprende, dall’autocensura che - inevitabile - arriva quando mentre scrivi non pensi a quanto senso abbia quel che stai per mettere sulla carta, ma all’effetto che fa. Quale sarà la reazione, cosa verrà da queste parole. È chiedendocelo, semplicemente tentando di prevederlo, che quelle stesse parole le imprigioniamo. E al contempo, con loro, asserragliamo i pensieri. Ascoltando Serra spiegare quanto valga il continuo esercizio di libertà che deve sempre essere la scrittura, vien voglia di staccare tutto e ricominciare daccapo. Ricominciare senza Twitter, Facebook, Instagram. Disconnettersi non per uno o due giorni, ma per sempre. E riprendere a coltivare pensieri lunghi, parole esatte. Insieme a una certa idea di solitudine: la capacità di essere senza specchiarsi di continuo nell’approvazione altrui. Diceva il vicino di casa Jeremy a una giovane Lucy Barton, in uno dei più bei romanzi di Elizabeth Strout, che per scrivere bisogna avere il coraggio di essere spietati. Non sembra riferirsi a questo, il fondatore di Cuore, quando spiega perché – oggi – un’avventura come quella del settimanale satirico nato come inserto dell’Unità e poi diventato da solo oggetto di culto, oltre che fonte di risate, sarebbe molto difficile. Non usa mai la parola "spietato", Serra, in quest’intervista. Parla però della necessità di essere liberi. E di quanto, per un intellettuale, sia – per alcuni versi – un dovere.
Il dibattito sulla cancel culture, e ora sulla woke, è arrivato anche in Italia, dove però il fenomeno non ha neanche lontanamente raggiunto gli eccessi degli Stati Uniti: qui non si licenziano giornalisti per frasi estrapolate dal passato, non si abbattono statue erette in altri periodi storici. Eppure, anche in Italia, è ormai sempre più difficile trovare spazio in mezzo ai due schieramenti opposti capaci di formarsi su qualsiasi cosa. Dal MeToo all’identità di genere, dai diritti delle donne a quelli della comunità LGBTQ, è come se fossero sparite le sfumature. La possibilità di comprendere più punti di vista, la capacità di fare una sintesi senza invece precipitare sempre – su tutto – in un’inutile guerra di religione.
Rifuggiamo la complessità o siamo, semplicemente, diventati tutti intolleranti nei confronti di un pensiero che non è il nostro?
«Non so se questo voglia dire "stare nel mezzo", ma mi respinge nel profondo l’abitudine di definire chiunque sulla base di presunte categorie di appartenenza. Quando mi dicono "maschio, bianco, etero", di me non dicono nulla credendo di avere detto tutto. Sono maschi, bianchi ed etero persone talmente differenti tra loro che la categoria si affloscia in partenza. Le condizioni umane negate e perseguitate sono svariate e non sempre definibili, le forme di repressione sessuale e di violenza fisica e psicologica idem. Creare una specie di corporativismo della sofferenza non aiuta a capirla né a combatterne le cause».
Il punto è anche la polarizzazione delle posizioni. Le parole usate come pietre dall’una e dall’altra parte: penso a J.K. Rowling definita "terf" e attaccata in modo molto violento sui social, per i suoi dubbi sull’identità di genere, ma anche all’idea – a mio parere eccessiva – per cui concedere il diritto di definirsi come donna a una persona trans significhi cancellare secoli di battaglie femministe. O addirittura mettere in pericolo le donne nei bagni pubblici. Quello a cui assistiamo è il continuo tentativo di dimostrare la bontà delle proprie idee identificando bersagli da colpire e abbattere, fortunatamente sui social e non nella vita reale, nel tentativo di screditare totalmente la posizione dell’altro. Come si ferma tutto questo?
«Il problema è complicato, e forse proprio per questo la mia risposta è semplice: diamo una importanza esagerata ai social, che sono per eccellenza il luogo della polarizzazione, della semplificazione, della violenza verbale. Ignoro totalmente i social esattamente per questa ragione: tenerne conto farebbe male al mio lavoro, farebbe male alle mie parole. Bisogna riprendersi tutta intera la responsabilità delle proprie opinioni e riscoprire, quando necessario, la virtù della solitudine. Altrimenti si scrive chiedendosi, mentre si scrive, "l’’effetto che fa". È la fine di ogni esercizio intellettuale che si rispetti. L’intellettuale deve rispondere alla propria coscienza, non a quel sondaggio ininterrotto che sono i social».
Alla fine sembra prevalere sempre chi grida più forte, chi picchia più duro, con la conseguenza che i miti si ritirano e i leoni di carta restano dietro la tastiera. Ma è davvero tutta colpa dei social o è successo qualcosa prima?
«È successo qualcosa prima. Si sono rotti quei grandi contenitori degli umori popolari che erano i grandi partiti di massa. Non penso affatto che gli italiani di trenta o quaranta o cinquanta anni fa fossero più miti e più riflessivi di quelli di oggi. Solo che non parlavano mai "in proprio", e senza freni, parlavano in luoghi nei quali la rabbia si decantava, l’errore era confutato, e l’opinione dello stupido e del violento trovava una sua vasca di decantazione. C’era un vaglio, una scuola della parola, ora il pulpito è a disposizione di tutti e la qualità degli oratori si è inevitabilmente abbassata, e di moltissimo. Ognuno per sé e tutti contro tutti, in una nebulosa di milioni di narcisi che spesso non posso permettersi il lusso di esserlo».
C’è ancora oggi, nel giornalismo e nel dibattito pubblico, uno spazio che possiamo considerare libero da condizionamenti e censure?
«Ci sono le persone. Singole persone che vale la pena leggere perché non si lasciano influenzare dal momento. La cosa che si dice di rado, delle cosiddette tempeste social, è che dopo due giorni spariscono per sempre. Hanno la consistenza di una scoreggia. Vale la pena leggere chi ha qualche riferimento temporale meno evanescente, più solido. Si è formato nei decenni, figurati che cosa gli importa dell’attimo. Ce ne sono, di persone così, quasi in ogni ambito, in ogni professione, e perfino in ogni giornale».
Nel 2021 un giornale satirico come "Cuore" potrebbe uscire ogni settimana o ci sarebbero quotidiane petizioni su Change.org e interrogazioni parlamentari per invocarne il rogo?
«Sono molto felice di avere fatto un giornale di satira trent’anni fa. E di non farlo ora. L’equivoco, il fraintendimento sono sempre esistiti, ma erano un fattore incidentale. Ora sono un fattore strutturale del discorso pubblico, ogni testo rischia di uscire dal contesto (e nella satira il contesto è tutto) e di essere preso alla lettera da un gran numero di imbecilli. La satira si rivolgeva ai suoi lettori, punto, era un linguaggio di minoranza e sapeva di esserlo, "Cuore" vendeva più di centomila copie ed era un’enormità. Oggi ogni frase è strappata dal suo contesto e buttata in un calderone indistinto e ribollente. Non posso dialogare, e nemmeno litigare, con chi non capisce quello che dico e quello che scrivo. Dunque, preferisco non parlargli».
Stiamo riscoprendo la censura rivestendola di buoni propositi? C’è la possibilità che il silenzio di chi sta in mezzo faccia sì che il dibattito non sia più un dibattito, ma una guerra, dove lo sconfitto perde il diritto di parola? Che tutto questo insomma porti a una ulteriore riduzione della nostra libertà?
«Bisogna evitare che accada. Mantenere il proprio tono di voce. Non avere paura di dire "cose di mezzo" se le cose di mezzo sembrano quelle giuste, e non avere paura di dire cose radicali quando è necessario dirle. Non mi fa paura la censura dei fanatici, mi fa paura la censura delle dittature e quella, subdola, del potere economico».
Questi toni sempre più aspri sono anche il prezzo che paghiamo per essere rimasti così indietro sui diritti? Abbiamo avuto le Unioni civili più tardi di molti altri Paesi europei, adesso stentiamo a fare una legge sul fine vita anche se i vuoti normativi sono stati segnalati dalla Consulta, la legge contro l’omofobia e la transfobia è stata bocciata due volte, di ius soli non si parla quasi più: un Parlamento che rimane indietro, coi referendum fuori a bussare, fallisce la sua missione di sintesi delle istanze della società?
«Siamo un Paese clericale, cosa ben diversa da religioso. E dunque sì, tutto ciò che non si uniforma alla morale della Chiesa ha molto stentato ad affermarsi. Ma siamo anche, da molti punti di vista, un Paese che ha fatto moltissima strada. Quando ero bambino sugli omosessuali gravava un stigma orrendo, i disabili erano quasi tutti tenuti chiusi in casa, la malattia mentale era una vergogna da occultare. Oggi non è più così. Bisogna raccontare nelle scuole chi erano Franca Viola e Aldo Braibanti, così i ragazzi capiscono da che Italia vengono, e possono apprezzare le loro libertà attuali. C’è una tendenza alla lagna e al vittimismo che può essere corretta dalla coscienza della storia. Chi non conosce la storia non è in grado di giudicare il tempo in cui vive».
Se dovessi riassumerlo in una sola risposta, in cosa hai visto cambiare la politica italiana negli ultimi trent’anni? Supposto sia cambiata.
«È cambiata in sintonia con la società, direi. Hanno perduto forza le speranze collettive, hanno conquistato spazio le ambizioni individuali. Devo dire che mi manca un luogo, anche fisico, nel quale confrontarsi con le persone, discutere di politica. L’assemblearismo di massa dei social è una caciara indistinta, la folla è opprimente, sarebbe importante ricominciare a scegliere i propri compagni di strada. "Tutti" è una parola terribile, io non voglio e non posso dividere la mia vita con "tutti"».
Che impressione ti fa vedere Letta, Conte, uno stuolo di ministri in fila per andare ad Atreju, la "festa" di Fratelli d’Italia? È un segno di riconciliazione nazionale o di un cedimento culturale?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Avranno nobili ragioni di pacificazione, magari, ma dal di fuori quello che emerge è il vecchio consociativismo romano. Atreju come Bruno Vespa. Uno dei vantaggi di vivere appartati, diciamo lontano dal Palazzo, è che non ti invita nessuno e non hai l’imbarazzo di scegliere tra un rifiuto brusco e un’adesione appiccicosa. Per fortuna mi invitano spesso a parlare nelle scuole. È sempre bello farlo. E non è mai imbarazzante dire di sì. Non invidio i politici, hanno responsabilità che non ho e pagano pegni che non pago».