Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2021
Nessuna pietà per i moscerini
Mi capita di raccontare del mio lavoro a chi per mestiere si occupa d’altro e l’idea che uno scienziato debba impiegare i polli o i pesci zebra – come faccio io – per capire come funziona il cervello suscita sempre uno stupore divertito. Non si tratta solo dei dettagli delle professioni altrui di cui magari sappiamo poco – tipo quel che accade nelbackstage durante una sfilata – ma di un fraintendimento sulle ragioni che guidano gli scienziati nella scelta di un particolare animale modello. Scelta che non dipende, come si potrebbe credere, da quanto l’animale ci somigli.
A volte ho l’impressione che persino altri scienziati – ad esempio gli psicologi cognitivi che studiano gli esseri umani, ma anche i colleghi ossessionati dai modelli murini di autismo, Alzheimer e altre malattie – abbiano in testa una concezione sbagliata del modo in cui nelle scienze della vita si seleziona un modello sperimentale. Che pensino, cioè, qualcosa di questo genere: «Caro Giorgio, se proprio devi studiare i processi mentali usando altre specie – e capisco che tu lo debba fare per certe ragioni pratiche ed etiche, poiché molte tecnologie necessarie per scrutare ciò che avviene dentro il cervello richiedono procedure invasive – la cosa migliore sarebbe comunque che tu lo facessi con quelle specie che ci sono prossime dal punto di vista evolutivo, come per esempio le scimmie. Magari però non hai abbastanza finanziamenti per studiare le scimmie. Perciò almeno usa i topi, no?».
Ecco, no. Non funziona così. Il mio laboratorio è molto ben finanziato in realtà, ma non mi servono le scimmie o i topi per quel che voglio studiare. Semplicemente non vanno bene per il tipo di problemi che mi interessano, ed è irrilevante qui la questione della distanza evolutiva. Che importa che gli scimpanzé abbiano il 98.5 del DNA in comune con noi? Se è per questo le banane hanno il 50 per cento del DNA in comune con gli esseri umani. E allora?
È la natura del problema scientifico che determina la scelta del modello. Se, come nel mio caso, vuoi sapere cosa c’è nel cervello alla nascita, in condizioni statu nascenti, prima che l’esperienza abbia iniziato la sua opera di scultura, quel che ti serve è un animale a prole precoce (come il pulcino) anziché inetta (come la scimmia o il topo) perché i primi, schiusi che siano dall’uovo o partoriti dalla madre, sono in grado di provvedere a sé stessi, mentre i secondi dipendono in modo più o meno esclusivo dalle cure dei genitori. (E sul perché studiare i pesci zebra, magari vi dirò un’altra volta.)
C’è una storiella attribuita all’illustre biochimico Hans Krebs secondo la quale Dio avrebbe creato il giusto animale modello per qualsiasi problema i biologi si trovino a dover affrontare. Leggendo l’ultimo libro di Piergiorgio Odifreddi ci si può rendere conto del perché. Il neuroscienziato Eric Kandel, per esempio, ha pensato che un lumacone marino dotato di qualche migliaio di neuroni, l’aplisia (Aplysia californica), potesse essere l’animale favorito da Dio per lo studio delle basi molecolari della memoria. E il genetista Thomas Morgan ha intuito che, partendo da una mutazione spontanea del colore degli occhi, il comune moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) potesse svelare molti dei segreti della genetica.
Considerare l’animale modello in relazione alla natura del problema non è equivalente a selezionare l’organismo con le strutture più semplici. Perché, spesso, non è solo la semplificazione delle strutture quello che cerchiamo. Per riprendere l’esempio degli studi di Kandel, certo se vogliamo capire i meccanismi molecolari dell’apprendimento associativo, di cui è capace la lumaca di mare e che dipenderebbero, secondo alcuni, dalla natura delle connessioni tra i neuroni, sembra ragionevole condurre le indagini in un animale che di neuroni ne ha cinquemila, come la lumaca di mare, anziché ottantasei miliardi, come l’uomo. Ma la strategia opposta può avere i suoi meriti. Se vuoi capire come funziona qualcosa puoi procedere sia per sottrazione (e tantissimo abbiamo imparato dagli esiti delle lesioni al cervello, sia quelle accidentali negli esseri umani sia quelle procurate sperimentalmente negli altri animali) sia per addizione, cercando di comprendere che cosa possa fare un animale con un po’ di cervello in più anziché in meno. Questa è una strategia diversa rispetto a quella di andare in cerca di un modello che abbia pochi neuroni, si tratta al contrario di trovare il campione di una certa specialità, l’animale che è neurologicamente superdotato in quel compito. Questo genere di neuropsicologia inversa, com’è stata chiamata, viene perseguita per esempio studiando gli animali che fanno provviste di cibo – come certe specie di corvi, che memorizzano migliaia di nascondigli delle loro provviste nei boschi – o come i maschi di certi uccelli canori che a ogni stagione sviluppano una nuova melodia per attirare le femmine – e che per riuscire a far questo letteralmente espandono, in maniera temporanea, certe porzioni dei loro cervelli.
Come ho avuto occasione di confessare a Piergiorgio questo è un libro che avrei voluto scrivere io. Perché è bellissima l’idea di raccontare in una serie di brevi e fulminanti capitoletti gli animali nella scienza, non solo quelli impiegati praticamente in biologia, ma anche quelli immaginati – il gatto di Schrödinger in fisica, i conigli di Fibonacci in matematica o la farfalla di (Edward) Lorenz nella teoria del caos.
Tuttavia in questi tempi politically correct ho l’impressione che spesso ci sia un po’ di ritrosia ad affrontare un aspetto spinoso della faccenda, ovvero se tutto ciò valga la pena. Se, cioè, ai milioni di moscerini della frutta sacrificabili nei laboratori di tutto il mondo in nome della scienza non dovrebbe essere consentito un destino migliore (sto usando come esempio i moscerini con intenzione, perché è solo un quadro di riferimento antropocentrico che ci fa porre la questione in termini così emotivi se si tratta di scimmie o di cani beagle, ma non se si tratta di un insetto).
Per i ricercatori di tutto il mondo – ed è bene che il lettore sappia che la stragrande parte della ricerca fondamentale nelle scienze della vita è condotta sui modelli animali – la risposta è ovvia. Dobbiamo concederci di studiare gli altri animai. Dobbiamo rispettarli, naturalmente, e fare tutto ciò che è possibile per ridurre ogni genere di sofferenza (l’Unione Europea a questo riguardo ha una legislazione molto avanzata) ma dobbiamo e soprattutto dovremo anche in futuro continuare a farlo: non ci sono scorciatoie per lo studio dei viventi come sistemi integrati. Dobbiamo farlo per noi, che siamo animali, ma anche per gli altri animali, nos semblables, nos frères, perché per conoscere i loro bisogni specifici, così che ne possano beneficiare in termini di farmacologia e medicina veterinaria, non dobbiamo revocarci il permesso di studiarli. Senza ipocrisia.