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 2021  dicembre 12 Domenica calendario

William Faulkner non più mutilato

Anche in campo editoriale, Umberto Eco manteneva prevalentemente l’abito di professore intransigente piuttosto che elargire, pure quando era il caso, pacche sulle spalle. È per questo che non posso dimenticare quella che mi procurai quando, era il 1983, agli inizi della nostra collaborazione, gli comunicai che avremmo pubblicato Bandiere nella polvere. (Faulkner era stato un sogno proibito anche di Valentino Bompiani, che poté pubblicare solo qualche racconto nell’antologia Americana (1943) di Vittorini). Si trattava di un titolo evidentemente trascurato dai suoi editori abituali, Mondadori e Einaudi, su cui pesava all’origine il ricordo del rifiuto di undici editori americani, nonostante l’autore, allora ventinovenne, l’avesse proposto come «IL libro» che avrebbe inaugurato la sua nuova stagione letteraria tutta ambientata nella contea immaginaria di Yoknapatawpha, «un francobollo di terra» del Mississippi. Sappiamo che un dodicesimo editore, Arnold Harcourt, della Harcourt and Brace (la casa editrice che circa sessant’anni dopo pubblicherà Il nome della rosa), riesce nel 1929 a strappare all’autore il consenso per un’edizione abbreviata, ma sarebbe meglio dire mutilata, con un altro titolo, Sartoris, nome di una famiglia tra i protagonisti del romanzo: Bandiere nella polvere evocava forse, in quel tempo, una sorta di revanscismo sudista. Sartoris è rimasto in circolazione fino al 1973, quando la Random House, nuovo editore di Faulkner, è riuscita a ricostruire un’attendibile versione dell’originale di Bandiere, grazie ai testi olografi e ai dattiloscritti conservati dall’autore, salutata festosamente dai faulkneriani di tutto il mondo. Per tutte queste vicende, ho sentito il bisogno di richiedere per l’edizione Bompiani una testimonianza critica di Agostino Lombardo e di Mario Materassi, che legittimava l’intento dichiarato dall’autore circa la natura di quest’opera, la terza, dopo La paga dei soldati (1926) e Zanzare (1927), battistrada della sua produzione a venire. In tempi più recenti, in un convegno organizzato nel luglio del 2008 dalla Mississippi University, Arthur F. Kinney intitolava la sua relazione dedicata a Bandiere nella polvere «La nascita della poetica di Faulkner», a partire dalla circostanza paradossale che lo scrittore, che aveva ingoiato il rospo solo per un problema di soldi, si era trasferito a New York, ospite del suo agente e amico Ben Wasson, e lavorava alacremente a un nuovo libro, accanto a Wasson che per cinquanta dollari aveva accettato l’incarico da Harcourt di sforbiciare e cucire ciò che sarebbe diventato Sartoris. Il nuovo libro, riconosciuto da tutti come il capolavoro assoluto di Faulkner, sarà L’urlo e il furore e uscirà nello stesso anno. Kinney, dopo avere attribuito alla poetica di Faulkner un’ascendenza balzachiana, per unità di luogo, ricorrenza dei personaggi, nuclei familiari e gerarchie sociali, gusto del dettaglio anche gastronomico (associazione di idee: le elaborate, ghiotte ricette della grande cuisine ottocentesca nel Cimitero di Praga di Eco), procede a una illuminante analisi comparata dei due libri frutto di una stessa felice ispirazione, con il secondo che si avvale naturalmente di un ulteriore affinamento. Vale inoltre la pena di ricordare che all’inizio dello stesso decennio era uscito l’Ulisse e si era completata la pubblicazione della Recherche, di cui pure si avverte il riverbero: nella struttura ellittica della narrazione, la sontuosità lessicale, il virtuosismo sintattico, il flusso di coscienza o intermittenza del cuore, il riemergere del passato… Una delle argomentazione del rifiuto di Bandiere era che sembrava raccontare sei libri diversi in una sola volta e, al suo amico agente che glielo riferiva, Faulkner aveva risposto: «Non credevo di essere così bravo. Ho capito per la prima volta che avevo fatto meglio di quanto sapessi».
A circa quarant’anni dalla prima edizione italiana, Bandiere nella polvere, approdato alla Nave di Teseo grazie alla fiducia del suo agente italiano verso la stessa squadra di lavoro di allora, richiedeva una nuova traduzione. Una pratica divenuta ormai d’obbligo soprattutto per i classici, in particolare per Faulkner, non sempre fortunato nelle versioni del nostro idioma. Prova ne sia che Adelphi, la casa editrice che ha affidato a Mario Materassi la riedizione di tutti i titoli pubblicati in precedenza dalla Mondadori, l’unica, se non vado errato, traduzione del passato che ha conservato è quella de Il borgo di Cesare Pavese. Carlo Prosperi, il traduttore della presente edizione, ha raccolto la sfida di orchestrare i diversi registri linguistici di Bandiere: da quello colto, a volte aulico, del narratore e di Horace Benbow, l’avvocato intellettuale, a quello degli aristocratici Sartoris, tra i quali spicca quello di zia Jenny, la vispa ottantenne, tutrice volontaria di due generazioni di maschi Sartoris, ma cinica e impotente testimone della loro rovina; e poi quello dei borghesi, dei parvenus, i nuovi ricchi, dei contadini e cacciatori attaccati alla terra, dei bianchi poveri e quello, «povero di consonanti», dei negri servitori integrati, talvolta un po’ razzisticamente caricaturali, come Simon il cocchiere del Colonnello Sartoris che siede a cassetta con la redingote e in testa il cilindro sulla ventitré.
Riguardo al modo di narrare, Faulkner colloca immediatamente il lettore in medias res, indulgendo in un gioco virtuosistico di occultamento, silenzio, ritiro, trattenuto. Sartre (citato da Kinney), che aveva letto Sartoris (l’Ur-Bandiere), annota: «Gli atti sono l’elemento essenziale del romanzo… Ma Faulkner non li nomina, non ne parla mai, e di conseguenza suggerisce la loro ineffabilità, oltre il linguaggio». Inevitabile, per leggere al meglio Faulkner, assumere l’appagante ruolo attivo di lector in fabula.