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 2021  dicembre 12 Domenica calendario

L’economia della Grecia antica

Non è per caso che Ernesto Franco, nel ridar vita alla gloriosa collana einaudiana degli Struzzi, ha voluto iniziare con un libro singolare e attraente come I Greci e l’arte di fare i conti di Giovanni Marginesu. La doppia vocazione degli Struzzi, saggistica e narrativa, trova infatti in queste pagine un ammirevole equilibrio, grazie a uno storico di talento e alla sua scrittura misurata ed eloquente, a cui ben risponde l’elegante copertina disegnata da Ugo Nespolo. Che cosa c’è di più noioso, ripetitivo, scolastico che far di conto, e per giunta in greco antico? Eppure Marginesu riesce a fare del suo tema, la “finanza felice” dell’Atene di Pericle, il nodo di un racconto sull’età classica che suggerisce qualche pensiero sull’oggi. 
Ma che c’entra la finanza con gli studi classici? Capovolgiamo la domanda: Pericle avrebbe mai potuto lasciarci in eredità il Partenone senza ben gestire il bilancio di cantiere? In pagine di notevole ma quasi invisibile erudizione, Marginesu getta un agile ponte fra due grandezze che paiono incomparabili ma non lo sono, le scritture contabili dell’Atene di Pericle e la sua creatività artistica. Due componenti di uno stesso incrocio di competenze e riflessioni sul mondo all’insegna di un’etica dell’equilibrio: “classico”, infatti, vuol dire proprio questo. In un libro precedente (Il costo del Partenone. Appalti e affari dell’arte greca, Salerno Editrice), Marginesu aveva evocato il dialogo fra Socrate e un fabbricante di corazze, Pistias (la sua techne, per i Greci, non era diversa da quella di uno scultore o di un pittore). Come racconta Senofonte, Socrate chiede a Pistias come mai le sue corazze si vendano a un prezzo più alto di quelle degli altri artigiani, pur essendo dello stesso materiale (il bronzo), e la risposta è: «perché so farle con proporzioni più armoniose, e che meglio si adattino al corpo del cliente». Ma allora quale è l’economia dell’arte? si chiede Marginesu. È di per sé un’attività improduttiva, e allora ogni suo costo è uno spreco? O invece le opere d’arte rispondono a una domanda (anche di bellezza e di armonia), e vanno integrate nel sistema economico? L’abilità creativa (la techne) può intensificare l’esperienza estetica, ma anche sovvertire il sistema dei prezzi, alterando le regole-base dell’economia “pura” (se una ce n’è). Il valore artistico spodesta il valore materiale, e perciò le opere d’arte pubbliche come il Partenone, che rappresentano un’ostentazione di opulenza decisa dalla politica, esigono procedure di verifica controllate dalla democrazia.
In un incipit invitante, Marginesu scrive: «La tesi di questo breve saggio è molto semplice: i Greci dei tempi di Pericle resero l’uso del denaro qualcosa di molto simile a un’arte, informandolo a principî improntati ad alcune leggi elementari e a una buona dose di etica e di estetica condivise». Le sterminate iscrizioni che elencano minuziosamente le spese della città e le loro ragioni presuppongono un costume civico improntato a trasparenza e controllo, che perciò richiedeva un gergo specializzato ma comprensibile. Perciò nel 431 a.C. Pericle (lo racconta Tucidide) poté offrire una sintesi delle finanze ateniesi in un discorso pubblico inteso a tranquillizzare i cittadini alla vigilia della guerra del Peloponneso. Alla peggio, disse, si poteva smontare la statua di Atena eretta da Fidia nel Partenone, d’avorio e d’oro, e usare i 40 talenti d’oro di cui era ricoperta, promettendo però di restituirli alla dea. Ma intanto si poteva ricorrere a cospicue risorse di cassa (6.500 talenti d’argento) oltre al tributo annuale dovuto dagli alleati.
I rendiconti ateniesi, scrive Marginesu «potrebbero apparirci una sorta di “attentato estetico” alla visione idealizzata della cultura greca», ma sono «la preziosa radiografia di quello stesso mondo e di quella stessa storia. (…) Sono l’architettura, l’arte, la guerra», e attraverso i loro costi «ne vediamo in dettaglio lo scheletro amministrativo e l’intelaiatura gestionale». Vi leggiamo dunque, in controluce, un sistema di attese e di decisioni e un orizzonte di ricezione tessuto intorno a un sistema di valori non solo metaforici o morali, ma incardinati nel prezzo. Ed è su questo scenario di fondo, sul palcoscenico della democrazia ateniese, che Marginesu trasfigura i rendiconti di spesa in «un’opera teatrale in tre atti»: chi dà il denaro pubblico e chi lo riceve; chi è autorizzato a spenderlo e come; infine, come se ne fanno i conteggi, e come vengono resi pubblici nelle iscrizioni, incolonnando a sinistra di chi legge le cifre e a destra le ragioni di spesa. In quest’opera lirica a cantare sono le monete, le lunghe iscrizioni-rendiconto fanno da scenografia, e chi suona la musica non sono solo le istituzioni, ma l’opinione pubblica. Cioè la democrazia (senza dimenticare che nella democrazia ateniese non votavano le donne, gli schiavi e gli stranieri).
Un rendiconto finanziario si designa in greco con la parola logos, che rimanda alla razionalità della procedura amministrativa: «una narrazione che si compone di una trama (la conduzione dell’impresa militare o del cantiere pubblico) e di un intreccio (la modalità attraverso cui gli elementi della trama risultano connessi». Perciò le lunghe iscrizioni piene di cifre raccontano l’abilità architettonica se si parla di edifici o la potenza finanziaria nei resoconti di guerra. Destinate ai cittadini, le iscrizioni segnano «il passaggio delle emozioni attraverso il setaccio della scrittura contabile». Inseguono una rappresentazione condivisa della realtà, piuttosto che un’astratta “verità”. Sono una maschera (teatrale) «che la democrazia ateniese indossa di fronte al mondo e a se stessa».
Come reggesse questo sistema di comportamenti e di pensiero, lo si vide alla prova della sconfitta nella guerra del Peloponneso. Nel 421 a.C., alla vigilia della pace con Sparta, gli Ateniesi provvidero a calcolare minutamente i prestiti che negli ultimi dieci anni avevano avuto dagli dèi, cioè dai loro templi. Una grande stele di marmo, ricomposta da diciotto frammenti, elenca inesorabilmente i prestiti, le date e gli interessi maturati. La polis aveva accumulato debiti con Atena, Hermes, Apollo, Artemide, Afrodite, Dioniso, Efesto, e anche con l’eroe Teseo, il fiume Ilisso e le Muse. Divinità che davvero meritavano gratitudine, anche perché si accontentavano di un basso interesse (intorno all’1%), quando nelle transazioni tra privati si andava dal 10 al 36 per cento. Gli dèi aiutavano dunque la città in difficoltà, e anzi – con un ultimo coup de théâtre del libro – si può credere che questa grandiosa rappresentazione contabile, che trascina gli dèi sulla scena e li fa compartecipi della vita della polis, sia stata incisa sul marmo quando il debito era stato già saldato. Perciò la stele doveva essere «un’icona dell’esemplare, etica, corretta restituzione del debito», vigilata e approvata dagli dèi.
Con felice intuizione, Giovanni Marginesu ha colto il potenziale narrativo e persino emozionale di una vicenda che attraverso i registri contabili penetra negli eventi della pace e della guerra, dell’arte e della moneta, della politica e della democrazia. Lo specialista vorrà verificare nel sobrio e incisivo apparato finale ogni passaggio del suo ragionare; ma il vibrare di storie e di personaggi umani e divini visti da quest’angolo visuale inconsueto risulta accattivante per ogni lettore. Remotissime, se mai, le analogie con la «finanza astratta, disumana e incomprensibile» di cui subiamo oggi il peso: una finanza senza dèi (o senza Dio), verrebbe voglia di dire.