Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2021
I concerti egiziani di Camille Saint-Saëns
Quando Camille Saint-Saëns si spense, il 16 dicembre di cent’anni fa, nel buen retiro di Algeri, Stravinskij scriveva Mavra e Berg aveva terminato il Wozzeck. Il Novecento non bussava più alle porte: le aveva abbattute senza cerimonie. E tuttavia questo signore distinto, barba e bombetta, gli resisteva imperturbabile. Della generazione di Brahms, nato nel 1835 nella Parigi in cui Bellini aveva appena dato I puritani, era stato contemporaneo di Chopin e Berlioz ma anche di Cocteau e Debussy, al quale sopravvisse di tre anni. Aveva insomma attraversato da protagonista, operosissimo fino alla fine, quasi un secolo intero, al punto che la sua immagine finì per coincidere con quella della Francia della Terza Repubblica, la cui identità promosse con determinazione, alla ricerca, dopo Sédan, del «vero cammino della musica francese», alternativo alla dilagante cultura wagneriana. Operazione che non mancò di dare i suoi frutti, a giudicare dalla generazione – quella di Fauré, suo allievo, amico e collaboratore, Ravel e appunto Debussy – che ne trasse vantaggio. Pur gratificato, per dirla con Romain Rolland, dal «raro onore di diventare un classico in vita», Saint-Saëns fu però ben lontano dalla figura monumentale del caposcuola monolitico. Il fascino del personaggio sta anzi nel chiaroscuro delle dinamiche che l’attraversano e nel dialogo creativo intrattenuto con la storia, vivacissima, che abitò.
Enfant prodige quanto Mozart (a cinque anni componeva la prima mélodie; a dieci, esibendosi al pianoforte alla Salle Pleyel, sembra proponesse come bis una qualsiasi sonata di Beethoven, naturalmente a memoria), virtuoso del pianoforte e dell’organo, in grado di costruire un catalogo, per limitarsi allo strumentale, di oltre 300 lavori (36 volumi della nuova edizione completa in corso di stampa), attraversò l’intera parabola dal tardo romanticismo alla modernità fedele all’ideale parnassiano d’un classicismo indefettibile, al culto d’una perfezione formale che ancora nel 1913, quando avrà ascoltato, storcendo il naso, il Prélude debussiano e il Sacre di Stravisnkij, gli farà dire: «Il Primo preludio dei 48 [del Clavicembalo ben temperato] di Bach non esprime nulla, ed è una delle meraviglie della musica. La Venere di Milonon esprime nulla, ed è una delle meraviglie della scultura». Difficilmente si potrebbe essere più espliciti. Ma meraviglia è anche la reazione che coglie di fronte alle invenzioni di Saint-Saëns. La meraviglia cui diede voce Paul Dukas, riconoscendo al collega la «predisposizione a trattare con naturalezza ogni possibile forma d’arte musicale», in una scrittura «sempre castigata e piena di sorprese». O quella di Gounod, che ne ammirava «questa autorità tonale così rifiutata dai dinamitardi della musica errante e vagabonda». Lo stesso Ravel dichiarerà d’aver composto i propri concerti per pianoforte «nello spirito di Mozart e Saint-Saëns».
Il credo parnassiano di Saint-Saëns si nutre peraltro di suggestioni dalla provenienza più disparata, che alimentano una fantasia pronta a imboccare vie imprevedibili. La fascinazione per l’esotico, di casa nella Francia coeva, è per lui ben più di un’esperienza libresca. Se trova sfogo in titoli come la Suite Algérienne la Havanaise per violino e orchestra, il Concerto per pianoforte “Egiziano”, ultimo di cinque (saranno dieci in totale i concerti, tra cui il primo, celeberrimo, per violoncello), la dimensione del viaggio si accampa con prepotenza nell’esperienza biografica dell’uomo, che attraversa l’Europa (in Italia soggiorna a Roma e Napoli, ma anche a Cesena, Pallanza e Bordighera), stringe amicizia con ?ajkovskij in Russia, ma soprattutto percorre l’Indocina, le Americhe, e ritorna sempre più di frequente in Africa settentrionale, tra Egitto e Algeria. Viaggia sempre in incognito, unico modo per «evitare d’esser costretto a parlare del proprio mestiere a persone che non ne capiscono nulla» e ancor più per aggirare l’equazione per cui «ovunque ci sia un musicista e un pianoforte, il primo deve sedersi al secondo». Lo spirito caustico e ironico di Saint-Saëns si rivela a ogni passo nella sua musica, in quel distacco dalla materia che culmina nel Carnevale degli animali, “grande fantasia zoologica”, microcosmo dall’inventiva inesauribile in cui si toccano due estremi: la parodia dell’infernale galop di Offenbach, paralizzato nell’andamento insopportabilmente indolente delle Tartarughe, e il lirismo iper-romantico della Morte del cigno, unica pagina di cui il compositore autorizzò l’esecuzione pubblica.
Come operista, nonostante tredici titoli all’attivo, Saint-Saëns sapeva d’aver raggiunto lo zenit nell’incanto irresistibile e morboso di quel «Mon cœur s’ouvre à ta voix» sussurrato dalla protagonista di Samson et Dalila (la prima era stata nientemeno che Pauline Viardot, paladina e dedicataria dell’opera), titolo che raggiunse le scene grazie all’amico Liszt, omaggiato nell’anno della morte con la Sinfonia n. 3 “con organo”. E tuttavia, soprattutto negli anni 70 e 80 dell’Ottocento (ma nel 1921 comporrà ancora tre splendide sonate) il compositore fu formidabile inventore di infallibili macchine musicali in grado di soggiogare le platee più vaste. Anzi, d’imporsi come inaggirabile nella cultura del Paese. A malincuore Marcel Proust confessò d’essersi ispirato, per la «petite phrase» della Sonata di Vinteuil nella Recherche, a una «frase incantevole ma in fondo mediocre d’una sonata per pianoforte e violino di Saint-Saëns, musicista che non amo». E due anni dopo la morte del compositore, Jean Huré dovette concludere che «la Francia non ha conosciuto maestri così completi dai tempi di Rameau».