Il Messaggero, 12 dicembre 2021
Quando entrò in vigore in Italia la legge sul divorzio
Il 18 Dicembre del 1970 preceduta da polemiche di ordine etico, giuridico e religioso, entrò in vigore la legge sul divorzio. L’Italia si spaccò in due, e molti vi videro una contrapposizione tra laici e cattolici. In realtà come si sarebbe capito più tardi, si trattava di un conflitto più profondo, di cui la Chiesa non fu la protagonista principale.
In effetti nessun istituto quanto il matrimonio è mai stato tanto influenzato dalle idee religiose della comunità. Lo stesso diritto romano riconosceva, almeno per i patrizi, l’antica e solenne cerimonia nuziale della confarreatio, celebrata dal Flamen Dialis, una sorta di sommo sacerdote.
IL CONTRATTOEra quindi naturale che dopo venti secoli di cristianesimo il sacramento coincidesse con quello che gli illuministi francesi consideravano un semplice contratto. I tentativi di Napoleone di introdurre un regime separato ebbero scarsa efficacia e breve durata. Alla fine dell’800 il laico ministro Zanardelli riusci ad abolire la pena di morte, ma non l’indissolubilità del matrimonio. La questione era stata successivamente risolta e al contempo complicata dai Patti Lateranensi, stipulati nel 1929 tra l’Italia e la Santa Sede. Il Concordato aveva devoluto ai tribunali ecclesiastici la giurisdizione esclusiva sulla validità del matrimonio cattolico, esonerando del tutto – o quasi – i nostri giudici civili. Infine la nostra Costituzione aveva recepito i Patti all’art 7, eliminando ogni possibilità del legislatore ordinario di incidere unilateralmente sulla materia, modificabile solo con una nuova convenzione tra le parti.
LA VALIDITÀAlcuni giuristi obiettarono che una cosa era la validità del matrimonio, un’altra la possibilità del suo scioglimento. Sta di fatto che mentre esse fiorivano, la Sacra Rota annullava matrimoni tra persone note e facoltose, alimentando il sospetto che fossero materia di baratto finanziario. In realtà i tribunali ecclesiastici non annullavano il matrimonio, che in quanto Sacramento c’è o non c’è, ma in certi casi lo dichiaravano inesistente, siccome mancante di requisiti essenziali o viziato da quegli impedimenti che Don Abbondio recitava all’esterrefatto Renzo in attesa di impalmare Lucia. Per di più la Chiesa ammetteva altre forme di scioglimento nonché privilegi e dispense che configgevano con l’ ordinamento italiano. Tutto questo, nella rapida secolarizzazione della nostra cultura e nella laicizzazione della politica, sembrava ormai irragionevole e vetusto.
Fu così che nel 1970 il liberale Antonio Baslini e il socialista Loris Fortuna, dopo un’ ardua battaglia sostenuta assieme ai radicali, convinsero il Parlamento a introdurre il divorzio, che in realtà era una di cessazione di effetti civili sottoposta a rigorose condizioni. Chi si era sposato in municipio doveva rivolgersi al tribunale. Chi aveva preferito l’altare poteva, in alternativa, optare per la giurisdizione ecclesiastica. Era un compromesso un po’ astruso, ma era il massimo, o il minimo, che si potesse ottenere senza scatenare una guerra di religione.
La reazione del mondo cattolico non fu omogenea. Formalmente la Chiesa espresse il suo fermo dissenso, ma non si spinse fino a denunciare ( come forse avrebbe potuto) la violazione dei Patti Lateranensi, né a fulminare di sanzioni i sostenitori della legge.
LA SAGGEZZANella sua, millenaria, immensa saggezza, Essa tenne un atteggiamento di prudente vigilanza. A dar battaglia furono invece i clericali intransigenti, più o meno organizzati. Ma il conflitto si sarebbe presto sopito se la Democrazia Cristiana, non avesse promosso il referendum abrogativo. Il suo segretario, Amintore Fanfani, impegnò tutta la sua autorevolezza ed abilità per una campagna che, se vittoriosa, avrebbe consolidato il predominio del partito nel Paese e il suo nel partito. Trovò un alleato forte, ma scomodo, nel Movimento Sociale. Per il resto dovette affrontare da sola uno scontro con uno schieramento composito che andava dai liberali ai comunisti. E questo fu un colossale errore politico.
Il PCI non aveva aderito con entusiasmo alla riforma Baslini-Fortuna. Un po’ per istintiva riluttanza ad associarsi ad iniziative altrui, e un pò per quella cultura sostanzialmente puritana, per non dire bacchettona, che contrassegnava la sua plumbea gerarchia. Tuttavia, nella sua (allora) formidabile e spregiudicata capacità analitica, il PCI comprese il vantaggio che gli sarebbe derivato dall’insuccesso del referendum, che avrebbe indebolito il suo avversario storico senza rafforzare gli altri contendenti. Così attuò un intervento adesivo alle forze laico- radicali, e impegnando tutta la sua potenza organizzativa trasformò il quesito sull’indissolubilità del matrimonio in un plebiscito pro o contro Fanfani e la Democrazia Cristiana. I quali caddero, malgrado gli avvertimenti dei più avveduti e forse dello stesso Vaticano, in questa trappola mortale.
LO SCHIERAMENTO Il 13 Maggio 1974 lo schieramento antidivorzista ottenne il 40% dei voti, contro il 60 della coalizione avversaria. I partiti laici non capirono che la loro era una vittoria di Pirro, ricca di allori ma scarsa di frutti, che sarebbero stati raccolti dal Partito Comunista. L’anno dopo, alle elezioni amministrative, il PCI infatti trionfò, e si accinse al famoso sorpasso. Fu solo con un estremo sforzo, e con l’adesione di truppe ausiliarie e riluttanti che la DC nel 1976 mantenne la maggioranza relativa dei voti. «Turatevi il naso e votate DC» aveva accortamente ammonito il laicissimo Montanelli. Il disastro era stato evitato, ma le ferite erano insanabili. Poco dopo sarebbe iniziata la marcia verso il compromesso storico interrotto nel 1978 dall’assassinio del’On. Moro. da parte delle BR. Ma fu un’interruzione formale: orami il Pci era entrato, sia pure a passo felpato, nella stanza dei bottoni. Il referendum comunque aveva dimostrato una cosa: che in Italia questi appelli al popolo spesso vanno ben oltre il contenuto specifico dei quesiti scritti sulla scheda, e tendono a convertirsi in messaggi politicamente più consistenti e significativi. Così avvenne con Renzi nel 2016, quando anche i partiti favorevoli alla sua riforma gli votarono contro, sperando di eliminarlo dalla scena. Renzi aveva commesso lo stesso errore di Fanfani personalizzando troppo l’evento. Questa volta a raccoglierne i frutti furono i grillini, che poco dopo avrebbero trionfato alle elezioni. Istruiti da questa esperienze, sappiamo che se in primavera si voterà sui referendum per la Giustizia, i cittadini non saranno interpellati solo sulla responsabilità dei magistrati, la separazione della carriere e altri argomenti specifici, ma sulla generale condizione della Giustizia. Il messaggio che ne uscirà sarà il seguente: o quello della rassegnazione al nostro sistema penale sgangherato e alla sua applicazione giacobina, oppure quello di una forte volontà riformatrice per una vera rivoluzione copernicana. I magistrati più conservatori lo sanno, ed è per questo che ne hanno paura.