Corriere della Sera, 12 dicembre 2021
Biografia di Beatrice Venezi raccontata da lei stessa
Beatrice Venezi, quanti nemici ha lei?
«Uh, ho perso il conto».
Che cosa non le perdonano?
«Vuole dire oltre al fatto di essere donna e di avere appena trentuno anni?»
Dovrebbero essere medaglie.
«Non se vuoi fare il direttore d’orchestra».
Lì solo uomini e possibilmente «agé»?
«Le do un numero: in Italia siamo appena tre (forse quattro) direttori d’orchestra donne, intendo dire persone che lo fanno per lavoro».
Alle radici di questa penuria di donne sul podio, quanto pesa l’idea del direttore d’orchestra come depositario di un «potere muscolare», alla Toscanini, per capirci?
«Secondo me moltissimo. E mi duole dirlo ma è un concetto abbastanza radicato nel nostro Paese. Si pensa che il direttore debba essere una sorta di divinità da non mettere mai in discussione e questo danneggia anche la percezione che si ha della musica classica».
Elitaria?
«Sì, che esclude quelli che osano mettere in discussione qualcosa o qualcuno. Quando la musica classica è gioia, è ricchezza, è cultura. Come possono un ragazzo o una ragazza accedere a qualcosa che li respinge invece di accoglierli? Il nostro è un mondo che sa allontanare molto bene chi non gli appartiene all’origine».
È successo anche con lei?
«Sì. Nata a Lucca, una famiglia semplice: mia madre lavora nella pubblica amministrazione, mio padre è nel settore della pubblicità. La musica in casa nostra entrava solo occasionalmente, non vengo da una famiglia di musicisti, non sono figlia d’arte. Però decisi di studiare pianoforte perché a scuola ci proposero delle lezioni».
Poi l’insegnamento del maestro Piero Bellugi.
«Importantissimo per me. Anche perché lui non mi fece mai notare che, in quanto donna, sarebbe stato difficile fare il direttore d’orchestra. Com’era giusto, si concentrò sulle lezioni. Lo scontro con la realtà avvenne a Milano».
Al Conservatorio?
«Sì ho tentato due volte l’esame di ammissione per il corso di direzione d’orchestra. La prima volta al mio posto venne preso un collega che era allievo di un allievo di un docente del Conservatorio. Ma non solo. Semplicemente la possibilità che una donna volesse salire sul podio era vista come bizzarra. E ho notato anche che non si teneva conto delle differenze fisiche: tutto era plasmato sul corpo maschile, mentre quello femminile ha una disposizione diversa degli organi e dunque segue percorsi differenti».
Insomma, il titolo di «maestro» lei se l’è sudato.
«Ecco perché lo difendo».
Chiedendo di essere chiamata «maestro» o «direttore», non «direttrice». Affermazione questa che al Festival di Sanremo, nel febbraio scorso, scatenò un putiferio.
«Non me l’hanno perdonata. Sa che dopo qualche giorno mi hanno cancellato una produzione già pronta? La scusa era il Covid, ma quando io ho cercato di contattare i responsabili questi non mi hanno mai risposto. Spariti».
Ma non crede che sia il momento di fare un passo avanti anche nel linguaggio?
«Io non credo che aggiunga qualcosa nella narrazione del femminile, anzi, penso che concentrandosi sulla questione linguistica si perda di vista un altro tassello fondamentale nella crescita: per esempio, il racconto della grandezza delle donne. Ho appena pubblicato un album, Heroines, dove vengono raccontate in musica delle figure coraggiose, pronte a difendere un’idea anche con la vita. Per esempio Giovanna D’Arco. Ma arrivo fino a Evita».
Laura Boldrini scrisse che, preferendo il maschile al femminile nella denominazione del suo lavoro, lei dimostra «scarsa autostima».
«A parte che per salire su quel palco o su tutti gli altri podi di autostima ne serve parecchia e dunque penso di non esserne sprovvista, faccio notare che quella volta nessuna “donna di peso” si espose per difendermi. Ricevetti però migliaia di testimonianze di solidarietà da parte di giovani da tutta Italia. E ribadisco: il mio titolo accademico è “maestro”, non “maestra”. Ma lo sa che qualche volta non usano nemmeno quello?»
Che cosa intende?
«Spesso sono dovuta intervenire perché in locandina omettono il titolo se c’è il mio nome. Per esempio, si dice “Dirige il Maestro Tal dei Tali” e poi mi capita di leggere “Dirige Beatrice Venezi”. Non dovrei forse difendere quello che ho conquistato senza far parte di quella élite che sta dietro alla musica classica in Italia?».
Questo è un tempo pieno di contraddizioni. Da una parte certi territori – connotati dal potere – sono difficili da conquistare per una donna, dall’altra c’è chi vuol cambiare il finale di un’opera come «Carmen» per evitare la morte della protagonista.
«Guardi, io credo che questo avvenga perché non si conosce bene la musica, né tantomeno si leggono le opere. Se uno andasse a studiare il libretto, saprebbe che l’eroina di Bizet dice di sé: “Carmen è nata libera e libera morirà”. Quel finale è fortemente legato alla scelta morale della protagonista, cambiarlo vuol dire sconfessarla».
I maligni dicono che lei fa più post su Instagram che concerti.
«Ancora: se andassero a vedere quello che ho fatto scoprirebbero che ho diretto più orchestre nel mondo io che molti altri coetanei».
Fuori la carta geografica.
«Eccola! Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Argentina, Portogallo, Giappone, Armenia, Georgia, Azerbaigian, Bulgaria, Bielorussia e Italia naturalmente».
Rigorosamente in abiti femminili.
«Sempre. Ma vede, fa parte del messaggio che voglio diffondere: la musica classica è e deve essere di tutti, senza distinzioni. Una donna non deve smettere di essere tale quando sale sul podio, non deve imitare gli uomini. La figura del direttore maschio e autoritario, che schiaccia i componenti dell’orchestra è superata. Vecchia».
Non ci hanno mai provato a farle indossare i pantaloni?
«Ma certo! Le racconto l’avventura in Giappone. Conoscendo il senso di disciplina innato in quella cultura, poco prima di partire scrissi una email spiegando che io indosso abiti femminili per un motivo ben preciso, ideologico. Mi risposero ringraziandomi ma precisando che avrebbero preferito qualcosa “male like”, qualcosa più alla maniera maschile. Bene, misi entrambi gli abiti in valigia ma una volta lì insistetti fino a convincerli. Salii sul podio con una meravigliosa tuta Chanel in pizzo. Concerto perfetto».
Dirigere un’orchestra vuol dire creare un clima. Guidare un corpo musicale complesso. Spesso fatto di persone più grandi di lei.
«È per questo che di solito succede che mi guardino con sospetto, ma poi quando comincio a lavorare si accorgono che non voglio dimostrare nulla, che voglio solo fare il mio lavoro. E tutto fila liscio. La difficoltà nasce quando devi metterci del tuo: un direttore d’orchestra deve conoscere bene la parte tecnica di un’opera e deve avere contezza delle prassi di esecuzione. Ma poi deve metterci personalità, altrimenti il suo lavoro non avrebbe senso. Certo, immagino che vedersi diretti da una donna molto giovane e che non rinuncia alla propria femminilità nemmeno sul podio spesso non sia facile, né scontato. E ogni volta un direttore ha appena due o tre giorni per “conoscere” l’orchestra e creare empatia».
Negli altri Paesi c’è un atteggiamento diverso nei confronti delle donne direttore e, in generale, della musica classica?
«Oh, sì. In Inghilterra, per esempio, dove mi è capitato di fermarmi a lavorare a lungo, nessuno fa caso al sesso o all’età di un direttore. Ma lì, in molti teatri, le persone vanno ad ascoltare musica anche con abiti casual. C’è un approccio diverso. Poi ci sono stati Paesi dove io sono stata la prima donna a dirigere un’orchestra al teatro dell’opera, per esempio in Azerbaigian e in Georgia. In Armenia addirittura la prima donna in assoluto a salire sul podio. È stato bellissimo: sapesse quante ragazze sono venute a salutarmi dietro le quinte, a fare domande. Come avviene sui social, dove sono molto presente e dove mi piace diffondere la mia idea di musica classica per tutti».
Le donne direttore d’orchestra sono e sono state poche. A chi si è ispirata?
«Purtroppo solo a uomini. Prima di tutto Bernstein e alle sue lezioni così carismatiche, quelle in cui trasforma la musica in un gioco meraviglioso. Poi naturalmente Bellugi ma l’eleganza di Carlos Kleiber credo sia inarrivabile».
Un accostamento originale che le piace fare in una conduzione?
«Mettere accanto alla N° 1 di Beethoven la N° 39 di Mozart. Si crea un fine effetto ironico».
Lei è anche una donna molto bella. Immagino che qualche volta arrivino corteggiamenti poco opportuni. Se non peggio.
«Una volta in ascensore un collega direttore di orchestra ci provò. Rimasi impassibile e desistette. Un’altra volta, sempre un collega mi invitò a cena. Io risposi con una mossa abile: invitai a mia volta tutto il cast. Cose così sono frequenti ma non mi è mai capitato di essere molestata pesantemente, né tantomeno di subire ricatti».
La sua vita privata è semi-blindata.
«Posso dirle che vivo a Lugano assieme al mio compagno, che è argentino e che si chiama Juan. Lui abitava già in Svizzera e io mi sono trasferita per amore. Stiamo insieme da tre anni».
E come vi siete conosciuti?
«In un modo molto semplice: cena da comuni amici sul lago di Como. Con un dettaglio originale: quella volta era presente tutta la sua famiglia, così mi hanno conosciuto subito».
Beatrice, in fondo lei ha solo trentuno anni. Ama il pop?
«Ma certo, io sono cresciuta con i Backstreet Boys, conosco a memoria tutte le loro canzoni».