La Stampa, 12 dicembre 2021
Porti e commercio, l’imbuto californiano
Nevica e fa freddo ad Anchorage, la capitale dell’Alaska. Ma nel negozio di articoli sportivi del signor Sue Westfield sono ancora esposte le biciclette per la passeggiate estive. Una signora si aggira cercando un cappotto e l’abbigliamento invernale. Lo scorso anno il lockdown aveva tenuto le persone in casa, nessuna occasione di sciare e pochissimi momenti da trascorrere fuori con gli amici. I cappotti non servivano. Nessuno li ha ordinati, i magazzini non sono stati riforniti e quest’anno la merce non arriva. Ferma in qualche container sulle grandi navi che solcano il Pacifico dall’Asia alla costa Ovest degli Stati Uniti.
La storia dell’Alaska nasce quindi migliaia di chilometri più a Sud, nei porti di Long Beach e Los Angeles. Si è formato lì il collo di bottiglia che sta strangolando la catena di approvvigionamento, svuotando gli scaffali dei centri commerciali Usa (trovare una stampante a BestBuy è un’impresa) e impedendo a piccole (soprattutto) e grandi aziende di produrre e assemblare i loro beni da immettere sul mercato.
Sono decine le navi da trasporto in attesa di ormeggiare o arrivare alla banchina. Ad oggi nel porto di Los Angeles ci sono 30 imbarcazioni, sessanta stanno attendendo a qualche decina di miglia di poter attraccare. Migliaia navigano in mare aperto. Il porto sta faticosamente smaltendo «il lavoro». A fine novembre il traffico a Long Beach e Los Angeles era in tilt: 86 navi in coda, sovraccarichi di lavoro per smaltire il processo di scarico delle merci. La Casa Bianca e le autorità hanno tentato di favorire il decongestionamento aumentando l’orario entro il quale i camion potevano essere caricati e partire lungo le freeway del Paese. La misura ha avuto un impatto minimo.
Le compagnie di shipping e le autorità portuali si sono allora coordinate per evitare il congestionamento. Da qualche giorno le navi che partono dai porti asiatici entrano in una lista di attesa appena levano l’àncora così evitano di andare a intasare l’affaccio al porto. I tempi di viaggio da Shanghai a Los Angeles sono stati raddoppiati: «Oggi – ha spiegato Jim McKenna, general manager della Pacific Maritime Association – una nave carica impiega fra i 22 e i 24 giorni per superare l’Oceano, fino a qualche settimana fa il tempo era dimezzato».
Da gennaio a settembre – quando l’imbuto creatosi in California è «esploso» – il porto di Los Angeles aveva scaricato 7,7 milioni di container, un volume del 21% più alto del periodo pre-pandemico. Anche i costi sono aumentati a dismisura: se fino al 2019 un container costava circa 2mila dollari, oggi per trasportare le proprie merci i trader devono staccare assegni sino a 24mila dollari. Senza avere la benché minima certezza che il tutto arrivi a destinazione nei tempi previsti.
Il New York Times ha raccontato la storia di Joseph Norwood. È un cameriere, lavora a San Diego in un ristorante fronte mare e soffre di apnea notturna per la quale ha bisogno di un macchinario per respirare meglio. Ha atteso sei mesi perché il suo medico glielo consegnasse. Lo scorso anno è svenuto mentre guardava un film in casa. Respiro sempre più affannoso, per il 44enne Joseph la vita era diventata faticosa, anche una breve camminata era un’impresa. Ha dovuto abbandonare il lavoro e chiesto i sussidi per la disabilità. Poi la diagnosi: il suo respiro di notte si fermava 62 volte in un’ora e il livello di ossigeno scendeva a livelli di pericoli. Da qui la necessità di affidarsi al macchinario. E l’inizio di una nuova odissea chiusasi dopo una lunghissima attesa: «Il macchinario è arrivato a fine novembre, ho trascorso la migliore notte da tempo», ha commentato. La sua vicenda non è isolata. Un pilota dell’aviazione civile è stato messo a riposo dalla sua azienda finché non avrà il suo sostegno alla respirazione.
Questi casi rivelano – ha spiegato Michael Farrell, general manager della ResMed che produce il congegno salva vita per chi soffre di apnea notturna – «una disparità di trattamento». I semiconduttori arrivano alle grandi aziende che producono macchine e prodotti hi tech, le più piccole si mettono in coda e aspettano. Farrell ha esplorato ogni via per riuscire a fare arrivare tutte le componenti necessarie ad assemblare i congegni salvavita ma è una corsa a ostacoli. La sua azienda oggi produce meno del 75% di quel che servirebbe e il braccio di ferro con i colossi dell’hi-tech è a senso unico: questi ultimi hanno investimenti in chip per tablet e smartphone che oscillano attorno ai 170 miliardi di dollari; l’automotive spende 49 miliardi, i congegni medici muovono circa 6,4 miliardi. Numeri che riflettono il peso che alcune aziende hanno rispetto ad altre anche nell’influenzare la logistica dello shipping.
Bloccata nel collo di bottiglia californiano c’è ogni genere di cosa e le conseguenze dello stop non si sono ancora completamente manifestate. Nessuno fa previsioni sul ritorno alla normalità e i rallentamenti si protrarranno per diversi mesi, è la previsione di molti esperti. All’origine del disastro di questi mesi c’è la recessione del 2020 legata al Covid. In pieno lockdown le richieste di beni sono crollate, le aziende – ormai abituate alla rapidità dello shipping ben più vantaggiosa che mantenere enormi magazzini e scorte – avevano bloccato gli ordini. La ripresa della domanda (l’economia Usa cresce oltre il 6%) ha contribuito agli intasamenti con contraccolpi sulla vita di persone – come Joseph – e aziende: la American Airlines taglierà le rotte internazionali nel 2022 a causa dei ritardi da parte della Boeing delle consegne degli 787 Dreamliners. Mancano componenti per rafforzarne la sicurezza. A New York manca la crema di formaggio per i leggendari bagel. I grossisti sono rimasti senza scorte. Intanto i giganteschi container sono in balia delle onde al largo di Los Angeles. Con a bordo i pezzi della nostra globalizzazione.