La Stampa, 11 dicembre 2021
Biografia di Michele Di Bari
L’inchiesta è apparentemente secondaria, sul caporalato in provincia di Foggia. Coinvolge una decina di italiani, proprietari di terre, che si affidavano a due caporali africani che controllavano i braccianti. E però deflagra al ministero dell’Interno perché tra gli indagati a Foggia c’è la signora Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie del prefetto Michele Di Bari, responsabile dei centri di accoglienza per immigrati di tutt’Italia. L’uomo, che al Viminale s’è fatto la fama di gran decisionista, anche stavolta non perde tempo e si dimette di slancio.
La decisione non meraviglia chi lo conosce. Il prefetto Di Bari è sicuramente uno che interpreta in maniera assertiva il suo ruolo. Se lo ricordano così a Modena, la sua prima sede importante, tra il 2013 e il 2016, quando ingaggiò un corpo-a-corpo con l’allora senatore Carlo Giovanardi, e gli strascichi sono ancora all’esame del Senato e probabilmente finiranno davanti alla Corte costituzionale. Nel maggio 2016, poi, l’allora ministro Angelino Alfano lo sposta nella difficile piazza di Reggio Calabria. Forse è merito delle sue capacità, forse delle crescenti entrature nel mondo cattolico che li accomunano.
Già, perché il prefetto Di Bari fa mostra di una fede fervente e vanta solide amicizie in Vaticano. A Reggio Calabria, dove resterà per altri tre anni, si mette in luce in due attività: scioglie decine di Comuni per sospette infiltrazioni mafiose (ci scriverà anche un libro: «Un prefetto in terra di ’ndrangheta») e disossa letteralmente l’esperienza di accoglienza dei migranti di Riace, passando al microscopio l’operato del sindaco Mimmo Lucano. Gli scioglimenti a raffica scatenano la protesta dei sindaci locali. Nel 2017, cinquantuno sindaci sugli ottantacinque della provincia si appellano al nuovo ministro Marco Minniti, contro la «cultura del sospetto» che trionfava in prefettura. L’allora ministro, però, può fare poco. E quando poi si dovrà candidare alle Politiche, sceglie di tenersi lontano dalla Calabria. Si disse all’epoca perché la base del Pd gli si era rivoltata contro.
Oltre che a Riace, il prefetto Di Bari prende di petto anche il problema della baraccopoli di Sant’Eufemia. Con le buone e le cattive, impone ai sindaci di farsi carico dell’ospitalità per i migranti ammassati. E nel maggio 2019, un trionfante nuovo ministro dell’Interno, Matteo Salvini, può finalmente montare ai comandi di una ruspa e abbattere le lamiere.
Quel giovane volitivo prefetto piace moltissimo a Salvini. Tanto più perché ha smontato il miracolo di Riace. E ancor di più perché è benvisto dal mondo cattolico che lo bersaglia di critiche.
È così che Salvini lo sceglie per un incarico enorme: gestire da Roma l’intero apparato dell’accoglienza, smontarlo con i famosi decreti che impediscono a tantissimi di ottenere un permesso umanitario e di conseguenza il vitto e l’alloggio a spese dello Stato, cacciati nella clandestinità, e infine ridimensionare clamorosamente tutte le spese.
I suoi modi spicci, al Viminale non piacciono a molti. In fondo è un marziano che ha frequentato sempre e soltanto prefetture di frontiera: Foggia, Barletta, Trieste, Vibo Valentia, Modena, Reggio Calabria. Con Luciana Lamorgese, che ovviamente lo conosceva già, essendo lei un prefetto di lungo corso, ha in comune una certa frenesia stakanovista del lavoro. Perciò la ministra l’ha molto apprezzato in questi ultimi due anni. E lo stimano più di prima anche in Vaticano, perché s’è speso per i corridoi umanitari di Sant’Egidio. Lo ricordano sempre ossequioso e sorridente, a Fiumicino, accanto a monsignor Konrad Krajewski, l’Elemosiniere del Papa, ad accogliere rifugiati.