La Stampa, 11 dicembre 2021
Maastricht, 30 anni di un cantiere aperto
L’istantanea finale del vertice di Maastricht riporta alle prime ore del mattino dell’11 dicembre 1991 e mostra Tommaso Padoa-Schioppa che attraversa la sala stampa attrezzata nell’immenso Centro Congressi della città olandese. L’allora direttore generale di Bankitalia, poi ministro dell’Economia con Romano Prodi, aveva sparso ottimismo nel pomeriggio, mentre i dodici leader della Cee duellavano sul progetto di una nuova Europa, sul Trattato con cui renderla più integrata, attenta alla dimensione sociale e, soprattutto, dotata di una moneta unica entro fine secolo: «Il soufflé monta negli ultimi cinque minuti». Adesso che il nuovo giorno è cominciato, e l’accordo è fatto, il banchiere centrale ha l’aria rilassata e si concede una piccola profezia: «Giornata storica, davvero – assicura –. Voi ragazzi finirete per raccontarla ai vostri figli».
Per fare strada, l’Europa che vuole l’unione nella diversità ha bisogno di visione e di una crisi. Il Trattato di Maastricht, battezzato in riva alla Mosa nel dicembre di trent’anni fa e firmato il 7 febbraio successivo, viene alla luce in una stagione di cambiamenti epocali, per molti versi intonati agli attuali. È il tempo in cui nella Germania appena unificata s’inizia una nuova era, mentre gli assetti politici continentali traballano, l’Urss ha raggiunto il capolinea, e nell’ex Jugoslavia tirano venti di guerra destinati a sgretolare il sogno titino.
Dubbi sulle prospettive economiche e sulla tenuta geopolitica agitano le cancellerie, in prevalenza confortate dalla consapevolezza che la risposta alle esigenze di stabilità stia nell’accelerare il processo di integrazione di quella che ancora si chiama Comunità economica europea. La Storia ha ripreso a correre: bisogna inseguirla, anche per sfruttare le potenzialità del mercato unico senza frontiere destinato a decollare col 1993.
Per questo, davanti ai partner preoccupati dalla "Grande Germania" ritrovata, il cancelliere Helmut Kohl elabora col presidente della Commissione, il francese e socialista Jacques Delors, l’idea di una unione politica ed economica in cui far confluire moneta, diplomazia, difesa, sociale e mercato. S’immagina un Patto di ripartenza, una Carta che crei l’ambiente in cui stringersi a una Germania intrinsecamente europea e tenere a bada lo spettro di un’Europa tedesca. Anche a Roma i tedeschi toccano qualche nervo scoperto. Giulio Andreotti, presidente del Consiglio europeista, confessa un amore per la Germania così grande da consigliare di averne due invece che una. Una battuta. Ma quando si scherza si dicono anche molte verità.
Delors sognava due Unioni parallele. Una economica e una politica. Pensava che le sole nozze monetarie non sarebbero bastate e, col senno di poi, sono in tanti a dargli ragione. A bloccare tutto fu però un altro francese, pure socialista, François Mitterrand. L’uomo dell’Eliseo lavorava perché Bonn rinunciasse al deutsche mark, ma non era disposto a sminuire la Grandeur del suo Paese. Il fronte «federalista» a cui ambiva Delors si sgretolò in fretta sull’asse franco-tedesco e a Maastricht si parlò di sola Unione economica e monetaria, nel disegnare la quale Kohl convinse tutti a introdurre parametri sulla carta duri per i bilanci, i famigerati 3% massimo del deficit sul pil e il 60% per il debito. L’accordo si fece. Non c’era altra opzione e comunque parve una rivoluzione.
In Italia si era dibattuto a lungo, in quei mesi, sul rischio di un’Europa valutaria a due velocità, e di una possibile retrocessione in "serie B" all’abbandono della lira. Fu il ministro del Tesoro Guido Carli, insieme col suo direttore Mario Draghi e il governatore Carlo Azeglio Ciampi (Apeldoorn, 30 settembre ‘91), a cucire l’intesa sul fatto che bastasse tendere verso l’obiettivo per superare gli esami. Un miracolo, a suo modo. Il vertice di Maastricht la confermò e l’Italia del superdebito si salvò. «Fosse prevalsa una tesi matematica – ammise Andreotti al Tg1 – non saremmo stati in condizione di farcela».
L’euro partì dunque il primo gennaio 1999, irreversibile come previsto. Era una moneta senza un governo, con tutte le carenze strutturali sottolineate bene da Prodi che, da presidente della Commissione Ue, ammise la natura «stupida» del Patto di Stabilità che dirigeva il traffico nell’Eurozona. Tenne sino al 2008, anche se il giudizio non è certo unanime. Allo scoppio della crisi finanziaria l’Eurozona ha rischiato il tracollo (e con lei l’Italia). Scossi dalla paura del contagio, i Dodici divenuti Ventotto, e la Cee trasformatasi in Ue, hanno dato risposte a tempo quasi scaduto che hanno risolto parte dei problemi, ma sbriciolato una ricca fetta di consenso. Senza la Bce di Draghi, il castello divenuto baracca sarebbe crollato.
Era la prova che, per crescere, l’Europa ha bisogno di rischiare il peggio, condizione necessaria ma non sufficiente, come capitato coi migranti, dramma davanti al quale l’Unione rimane latitante. Col Covid è andata meglio, nella tragedia generale. L’Ue si è rivelata flessibile, ha allentato i vincoli di bilancio, ha creato una cassa comune per la ricostruzione, ha imbastito un coordinamento sanitario che nessun trattato aveva concepito. Tutto bene? Non abbastanza.
In questi anni, di ricchezza nonostante tutto, l’Europa si è trovata a cambiare ogni cosa per non cambiare abbastanza. Solo cercare di far contenti tutti. Il nodo è come compiere un passo avanti per non farne tre indietro. Come fare massa contro il cambiamento climatico e l’economia sostenibile. L’anno prossimo bisogna riattivare il Patto di Stabilità che ritorna dal 2021 e magari renderlo più intelligente, sanando il conflitto fra falchi e spendaccioni, in cambio di un’adesione convinta e seria a un progetto di interesse collettivo. Anche l’euro ha bisogno di crescere. Con l’Unione bancaria e la svolta digitale chiesta ancora ieri da Fabio Panetta, a nome della Bce che coi tassi sottozero e l’acquisto dei titoli ha fatto molto più di quanto si sarebbe mai immaginato.
A guardarsi indietro, si pone con forza la riflessione sui voti all’unanimità che bloccano i progressi dell’Unione. Chi crede nel sogno di Spinelli a Ventotene studia geometrie variabili per lavorare meglio, vedi il patto del Quirinale fra Francia e Italia. La doppia eredità di Maastricht è che una mediazione è sempre possibile se si vuole, ma anche che i compromessi deboli hanno le gambe corte. Il consenso richiede lungimiranza, quella stessa virtù che nel 1991 è stata solo intuitiva. Le insidie sono immutate: le crisi sociali che nascono nella povertà mai abolita, l’economia sempre esposta a fragilità gravi, le potenze globali dall’ego dirompente, il Medio Oriente, l’Africa dimenticata, l’America in cerca di autore. Maastricht ricorda che bisogna imparare dal passato e guardare bene avanti prima di decidere, senza mai rinunciare alle migliori ambizioni. Almeno sinché l’obiettivo resta quello di condurre l’Europa oltre la fase del bivio permanente che non conviene a nessuno, nemmeno ai detrattori pronti a suicidarsi nei peggiori nazionalismi. Perché, come avvertì proprio Mitterrand, «il nazionalismo è guerra».