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Viviamo in un mondo a orologeria: scandire il tempo è da sempre un’esigenza degli esseri umani. Dalle meridiane degli antichi romani alle clessidre, dagli orologi a pendolo ai moderni smartwatch, per millenni questi strumenti di misurazione delle giornate hanno segnato la strada del progresso, svolgendo un ruolo decisivo in tutte le attività della specie. L’unica, fra tutte quelle che popolano il creato, ad avere bisogno di una risposta alla fatidica domanda: che ore sono? «La storia del tempo è la nostra storia», scrive David Rooney ne I 12 orologi che raccontano il mondo , affascinante biografia dell’accessorio senza il quale non possiamo vivere, anche se oggi è rappresentato soltanto da due cifre digitali. Il suo libro, pubblicato in Italia da Garzanti dopo recensioni entusiastiche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, è un viaggio dentro le lancette dell’esistenza, con a farci da guida uno storico che è membro dell’Antiquarian Horological Society, la società degli antiquari di orologi, consulente del Clockmakers Museum di Londra, il più antico museo dedicato agli orologi, ed ex-responsabile del rilevamento del tempo all’Osservatorio Reale di Greenwich, il punto della terra da cui partono i fusi orari.
Cominciamo da lì, Rooney: perché il meridiano zero passa proprio da Greenwich?
«Perché da lì partivano le mappe marittime e perché l’Inghilterra era all’apice del potere, il più grande impero del mondo, quando nel 1884 fu presa la decisione: per cui poteva permettersi di dettare il tempo al resto del pianeta.
Ma fu a lungo una decisione contestata, particolarmente dalla Francia, a cui non andava bene di farsi dire dagli inglesi che ore sono».
Facciamo un lungo passo indietro: quando l’Homo Sapiens ha sentito la necessità di avere un orologio, sebbene non si chiamasse ancora così?
«I primi erano orologi ad acqua, che risalgono all’Egitto di 3500 anni fa: in sostanza un secchio con un foro, con una scala per segnare le varie fasi della giornata. Poi venne il meridiano installato nel Foro di Roma 2200 anni orsono. E bisogna aspettare il tredicesimo secolo perché in Europa nasca l’orologio meccanico».
Come venne accolta questa innovazione?
«Abbiamo la citazione di un commediografo dell’antica Roma che se ne lamenta: prima mangiavo quando avevo fame, adesso devo farlo all’ora stabilita per il pranzo.
All’inizio non fu accolta benissimo».
Ma poi ha contribuito non poco al progresso umano… «Indubbiamente:ogni nostra attività è regolatadaltempoedunque dagli orologi. C’è anche chi li ha utilizzati con effetti negativi e chi li ha vissuti come unaformadioppressione, masenzadi lorononsaremmodovesiamo».
È vero che smontare e rimontare un orologio è una delle operazioni più complicate che esistano?
«Avendoci provato con risultati mediocri, posso testimoniarlo di persona. Ora esistono macchine più complicate, ma per secoli l’orologio è stato lo strumento più complesso esistente sulla faccia della terra e i maestri orologiai meritavano dunque grande rispetto».
Ha scelto dodici orologi per raccontare il mondo perché dodici sono le ore su un orologio?
«Quelli di cui parlo nel libro sono molti di più, ma certo ho seguito il modello delle ore sul quadrante di un orologio per descrivere i più significativi. Dodici è il numero in cui gli egiziani decisero di dividere la notte in segmenti studiando le stelle.
Mentre risale ai babilonesi la scelta del numero 60, la nostra unità di misura per le ore e i minuti, perché era la base dei loro calcoli matematici».
L’orologio da polso è destinato a scomparire, dal momento che per sapere l’ora basta guardare lo schermo del cellulare?
«Sono cinquant’anni che si sente parlare della imminente scomparsa dell’orologio da polso: non è successo e non penso che succederà.
L’orologio non serve soltanto a dirci l’ora: è un accessorio intimo, che esprime la nostra identità, con il quale abbiamo un forte legame. Sono convinto che continueremo ad averlo al polso nonostante telefonini e smartwatch».
A proposito di quest’ultimo, lei ce l’ha?
«Sì e apprezzo tutte le informazioni che può darmi, oltre all’ora esatta. Ma da un pezzo gli orologi dicono molto più dell’ora, sono oggetti multifunzionali in grado di svegliarci, indicare la posizione dei pianeti, cronometrare un evento».
In una famosa battuta del film “Il terzo uomo”, Orson Welles dice che l’Italia sotto i Borgia ha avuto per trent’anni assassinii, guerre, terrore e massacri ma ha prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento, mentre la Svizzera ha avuto cinquecento anni di pace e democrazia e ha prodotto l’orologio a cucù. È davvero da disprezzare l’orologio a cucù?
«Per nulla: è un miracolo di ingegneria meccanica, fatto interamente di legno per di più. Il film in realtà sbagliava: lo hanno inventato i tedeschi nella Foresta Nera, ma è diventato un simbolo svizzero e così lo vede l’immaginario popolare».
Ed è legittima la fama degli svizzeri come migliori orologiai del pianeta?
«Lo sono stati per gran parte del secolo scorso, in virtù di strumenti e scuole migliori, rimpiazzando gli inglesi, che erano i maestri orologiai originali. Ma poi gli svizzeri sono stati sorpassati dai giapponesi, diventati di una prodigiosa precisione, è il caso di dire, in questo campo».
Esiste anche un orologio per calcolare il rischio dell’Apocalisse: il Doomsday Clock…
«Un orologio creato dal Bulletin of Atomic Scientists , la rivista che nel 1946 riuniva gli scienziati che costruirono la prima bomba atomica con il Manhattan Project americano durante la Seconda guerra mondiale.
In un certo senso quell’orologio è la loro coscienza: rappresenta quanto tempo siamo vicini a una guerra nucleare in grado di distruggere la nostra civiltà. All’inizio segnava 7 minuti a mezzanotte. Adesso, che al pericolo di conflitto nucleare ne ha aggiunti altri a cominciare dal cambiamento climatico, segna 100 secondi a mezzanotte. Non siamo mai stati così vicini alla fine del mondo».
Per concludere, quale è il suo orologio preferito?
«Il Seiko che ho al polso: poco costoso e funziona benissimo».
E la sua ora preferita?
«Le 11 del mattino. Diciamo la pausa caffè: quando hai già fatto un po’ di lavoro, il lunch non è lontano e sai di avere ancora abbastanza tempo davanti a te».