Eppure il suo sarà un Natale di speranza. «Dobbiamo essere sognatori, coltivare l’utopia nella pratica di ogni giorno. Non riesco proprio a essere pessimista. Nelle persone umili, anche tra chi grida per il dolore o l’ingiustizia, c’è una carica positiva che va riscoperta. Ma ci serve il coraggio della radicalità, come ci ha insegnato il cardinale Martini. Al di là della fede per me il Natale è sempre stato un tempo di rinascita, una data dalla quale ricominciare riconoscendo come valori sociali anche l’innocenza e l’ingenuità».
A che cosa pensa quando parla di radicalità?
«Decidere, fare scelte scomode.
Purtroppo abbondano invece i fotografi della realtà. Mi riferisco a coloro che denunciano le urgenze ma poi le lasciano immutate. La politica è vergognosamente timida nell’adeguarsi alle trasformazioni della società che invece andrebbero anticipate e gestite».
Qual è il Paese che immagina?
«Un Paese che riparta dalle fragilità per ricostruire una giustizia sociale e che dia veri segnali di coesione. Lo sguardo dovrebbe essere quello che papa Francesco ci mostra con Fratelli tutti e nella Laudato sì’ , cioè la capacità di riallacciare i legami.
Martini la definiva l’amicizia civica».
È un concetto che il presidente Mattarella ha raccomandato più volte.
«L’applauso della Scala mi ha commosso. Abbiamo bisogno di altri testimoni forti come lui, abbiamo bisogno delle istituzioni per inseguire insieme l’utopia che Ernesto Balducci chiama con i piedi per terra».
La pandemia segna una cesura storica: ci sarà per sempre un tempo prima del virus e un tempo dopo il virus. Non crede che la priorità adesso sia fare ripartire l’economia?
«C’è stata e in parte c’è ancora la stagione della resistenza. Ora servirebbe una pausa per capire che davvero nulla può restare come prima. La grande riforma del Pnrr non può limitarsi all’economia, ci vuole una rivoluzione etica.
Dobbiamo guardarci in faccia in modo diverso. Francesco parla di conversione ecologica. Vuol dire cambiamo stili di vita, comportamenti, insomma, il nostro modo di agire. Io sento tutto questo, ho voglia di cominciare qualcosa di nuovo. Anche se sono un vecchietto».
Lei ha incrociato migliaia di disperazioni. Che cosa le hanno lasciato?
«La certezza che gli ultimi della terra, quelli che papa Francesco chiama i resti, sono un dono.
Rappresentano la gioia di essere prete. Il dolore unisce gli uomini più di qualsiasi altra cosa. Penso, per esempio, alle madri di figli autistici e ai disabili. Io sono partito da Sesto San Giovanni in una casetta piena di rose in cui ho accolto i disabili, molti dei quali tolti al manicomio.
Ho passato undici anni con loro. Mi chiamano prete di strada, sono invece un prete di comunità: relazioni, fraternità, centralità della persona».
Che cosa è oggi la Casa della carità di Crescenzago?
«Una struttura pubblica che ospita un centinaio di persone e una trentina di famiglie di profughi afghani. Donne, uomini, bambini. Per me è un luogo teologico che cerca di tenere assieme tre energie: spirituale, culturale e politica. Con dentro l’inventiva per il cambiamento, come ci ha insegnato Giorgio La Pira. Mai come in questo periodo frequento il posto a me più caro: la cappella. Mi inginocchio e penso, cerco di farmi venire qualche idea».
Quali sono le nuove povertà?
«Le solitudini dei senza famiglia, quella degli anziani, le fragilità psichiche e quella nascosta dei tantissimi che si vergognano della povertà. Non lo dicono ma la soffrono. Anche mio padre e mia madre rientravano in questa categoria di poveri. Papà era invalido, mamma operaia alla Lazzaroni di Saronno.
Quando le arrivava lo stipendio la prima cosa che faceva era mettere da parte i soldi dell’affitto. Fatto quello, rimaneva poco. Io vedevo la loro fatica quotidiana.
Avevamo solo un piccolo bagno all’aperto sul ballatoio, ma in casa dovevamo girare con le pattine perché mamma non rinunciava alla cera.
Questa è la dignità dei poveri».
Rinascesse, farebbe ancora il prete?
«Non mi dispiace la politica, ma sì farei ancora il prete, senza alcuna esitazione. Lo sono diventato a ventiquattro anni e mi hanno spedito tra i poveretti della Bovisa, in mezzo alle grandi fabbriche, tra i primi immigrati dal Sud, soprattutto dalla Puglia e dalla Calabria. Era il 1969, sono rimasto fino al 1976».
Poi a Milano arrivò il cardinale Martini. Come fu il vostro primo incontro?
«Gli scrissi una lettera con la quale gli dicevo che avrei voluto fare un’esperienza forte. Mi chiamò in arcivescovado, vi rimasi tre giorni, poi con lui alla guida di una Fiat Panda andammo al monastero delle benedettine di Viboldone dove restammo a lungo in una stanza, in silenzio. Alla fine mi disse: ti mando a Sesto San Giovanni».
Che cosa crede di avere imparato dai poveri?
«A non accontentarmi di una carità annacquata, che puzza di buonismo.
Uno di quegli operai mi insegnò un proverbio che spiega quanto sia tortuosa la strada per raggiungere la verità o più semplicemente il modo di fare la cosa giusta: sappi che in un sacco di noci ci sta un sacco di miglio.
Nella vita bisogna rovistare».
Martini, nell’affidarle la guida della Casa di Crescenzago, le chiese di renderlo un luogo dove la parola carità fosse riempita di giustizia.
Pensa di esserci riuscito?
«Non lo so, ci ho provato, ma dubito sempre. So che ho reimparato a leggere tantissimo. Simone Weil, Eugenio Borgna, Benedetto Saraceno, Edgar Morin. Serve l’umiltà della lettura per essere capaci di ascoltare e intuire i sentimenti del nostro prossimo. I profughi, per esempio, mi parlano con il silenzio, con le loro facce immobili, tanto sono chiusi in se stessi».
L’immigrazione è l’emergenza più grande?
«Non è più una emergenza. È una urgenza. Ma ha ragione Francesco quando dice lasciateci piangere contro la globalizzazione dell’indifferenza. La questione è decisiva per il futuro del mondo e noi non riusciamo neppure ad affrontare lo Ius soli. L’accoglienza è una scelta di civiltà verso un fenomeno strutturale e non provvisorio. Non si possono trasformare in reietti tutti i migranti, devono essere protagonisti del loro futuro. Se non si lasciano fasce di marginalità si possono limitare anche i problemi di sicurezza sociale».
Milano ha sempre il cuore in mano?
«In parte sì, ma dovrebbe rallentare la corsa imprenditoriale e pensare di più al suo capitale umano, che è un patrimonio immenso. E la politica deve tornare a una visione metropolitana».
Nel 2022 scade il suo mandato.
Che cosa farà?
«Vorrei continuare così, ma non sta a me decidere».
Non ha mai cedimenti sulla propria fede?
«Per credere bisogna anche dubitare, far parlare il non credente che è in noi. Ogni volta che mi trovo davanti a un crocifisso gli faccio una sola domanda: Dio, dove sei?».