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 2021  dicembre 11 Sabato calendario

Quando le star dell’arte costavano mezzo maiale

Non è una mostra sul Rinascimento. Ma sull’altro Rinascimento. Una mostra che ti porta dentro la fabbrica delle idee e della creatività, un precorso che guarda le opere non solo per la loro meraviglia e qui ci sono i migliori Jacopo da Bassano che si possano vedere ma per capire come e perché nacquero qui, in quel momento. Per capire quanto valeva il mercato dell’arte e in che modo un’invenzione si concretizzava in realtà. È La fabbrica del Rinascimento, la grande mostra inaugurata ieri alla Basilica palladiana di Vicenza (fino al 18 aprile 2022) che racconta come «una città non molto grande ma di ricchezza assai abbondante», con dei committenti colti e cosmopoliti, dei nobili ambiziosi e un gruppo di giovani artisti moderni incantati dall’«arte nuova» nutrita dall’Antico – l’architetto Andrea Palladio, i pittori Paolo Veronese e Jacopo Bassano, lo scultore Alessandro Vittoria diedero vita a un modello di art system ante litteram. Genio, sghei, status symbol e mercato. Le tre «I» del Rinascimento: invenzione, innovazione, imprenditorialità. O le tre «C»: coraggio, creatività, competenza.
Tre curatori (Guido Beltramini, Mattia Vinco e Davide Gasparotto del Getty museum di Los Angeles), due anni di lavoro, un costo di 1,2 milioni di euro (700mila sono soldi pubblici, 500mila di Marsilio arte), 90 magnifici pezzi fra dipinti, sculture, disegni, gioielli e arazzi, lo spazio espositivo forse più bello dell’Europa mediterranea la Basilica palladiana: mille mq per 25 metri d’altezza e volta a vista l’ambizione di svelare i meccanismi di produzione dei capolavori (il making of delle botteghe d’artista), un anno chiave, il 1550, quando Vicenza e la Terraferma veneta, tra industria della seta, mulini ville e palazzi, era una delle aree più ricche e dinamiche in Europa (all’epoca la città di Gian Giorgio Trissino, un umanista che sapeva di politica e aveva capito dai Papi che è la cultura può cambiare un Paese più della finanza, contava 30mila abitanti), e un mito da sfatare: che gli artisti rinascimentali siano geni assoluti e nient’altro. No. Sono diabolici imprenditori, innovatori, uomini che sfruttano le prime forme di marketing, che realizzano bozzetti e modellini per i clienti, che producono copie con lo stesso soggetto dei quadri più richiesti, replicano tele e busti che incontrano il gusto del pubblico, riciclano e riutilizzano progetti scartati, usano (come Palladio) materiali low cost. Alle radici dello spirito imprenditoriale veneto. Il Nord est tra factory e impresa.
Con un cortocircuito artistico-architettonico molto curioso la storia dell’altro Rinascimento è raccontata dentro il luogo che ha costruito questa storia: il progetto di Andrea Palladio per la sua basilica è del 1549 la mostra si sviluppa lungo un «dove», un «chi», un «come» e è l’aspetto più originale della Fabbrica del Rinascimento un «quanto».
Il «dove» è una Vicenza che non si sente inferiore a Venezia, operosa e danarosa, con un’aristocrazia fiera e combattiva. Qui ci sono modellini e disegni preparatori dei grandi edifici cittadini proprio sotto lo sguardo dei loro committenti: il Ritratto di Livia Porto Thiene e della figlia o quello di Iseppo Porto e il figlio, entrambi di Paolo Veronese, del 1552, o il Ritratto di Paola Bonanome Gualdo con le figlie (1566) di Giovanni Antonio Fasolo. E lì davanti ecco la ricostruzione in legno di Villa Repeta e Villa Saraceno del Palladio, e Palazzo Thiene, che è a 250 metri da qui, o Palazzo Porto
Il «chi» sono i quattro eroi della mostra. Palladio, Veronese, Jacopo Bassano e Alessandro Vittoria coi lavori più belli di quella stagione. Uno per tutti: L’unzione di Davide (1550) di Paolo Veronese che viene da Vienna. 
Il «come» sono i processi creativi. Quindi le fonti di ispirazioni e l’uso che gli artisti facevano delle stampe, un «mezzo» straordinario per far circolare le idee e potere vedere – in piccolo – opere lontane, un po’ come l’iPhone oggi; e poi l’uso di disegni e «modelletti» (diciamo dei rendering...) per mostrare al cliente il risultato finale. «Come preferisci la facciata del tuo palazzo, così o così?». «Io la Natività che mi hai chiesto l’ho immaginata così, ti piace?». Ed ecco i progetti à la carte di Palladio; un quadro del Veronese ispirato alle composizioni del Parmigianino, ecco due Adorazioni dei Magi del Bassano identiche, ma di taglia leggermente diverse, per due diversi committenti
E poi il «quanto». Quanto costava un quadro? Quanto valeva il lavoro di un artista? Risposta: tutto ciò che oggi è custodito nei musei, valeva ben poco; e ciò che oggi ci piace di meno, aveva costi esorbitanti. Un esempio? Ecco un dipinto di Jacopo Bassano, un Ritratto di due cani (1548) che arriva dal Louvre, direttamente dalla sala dove è esposta la Gioconda. Capolavoro assoluto. Bene. All’epoca valeva 15 lire. Che, con un calcolo fatto ad hoc dal team di economisti della mostra, i quali hanno usato come unità di misura un bene di largo uso nel ’500 come il «mezanotto», un maiale di mezza taglia del costo di 3 ducati, valeva forse anche perché il dipinto era di piccole dimensioni e con poche figure mezzo maiale. Molto di più, per i materiali preziosi e per il maggior tempo impiegato a realizzarle l’opera, valevano gli arazzi o le statue o i bronzi. E al top c’erano i marmi antichi. Ogni opera in mostra porta nella didascalia il valore in «mezanotti». Il prezzo di questo busto romano in marmo, ora a Monaco di Baviera, era equivalente a cento maiali. Mentre eccola qui la croce in cristallo di rocca incisa da Valerio Belli per papa Clemente VII fu pagata l’astronomica cifra di mille scudi: 333 maiali. Palladio, è vero, guadagnava appena come un maestro setaiolo. Ma c’era offerta di arte e c’era una grande domanda. Fu il Rinascimento di Vicenza. Poi nel 1630 arrivò una malattia infettiva. La peste nera. E dopo, nulla fu più come prima.