Corriere della Sera, 11 dicembre 2021
L’intelligenza delle piante spiegata da Stefano Mancuso
Professore, confessi: lei parla con le piante.
«Certo».
E che cosa dice loro?
«Gli rivolgo espressioni d’amore, del tipo “come sei bella”».
E sua moglie che dice?
«Guardi, fino a quando non andrò in giro a dire che le piante mi rispondono, va tutto bene».
Stefano Mancuso, 56 anni, uno dei maggiori studiosi del mondo botanico, ha dedicato la sua vita accademica a dimostrare che le piante sono dotate di intelligenza. Ma il professore è soprattutto una persona di squisita ironia e dunque questa conversazione – che si è svolta nel suo ufficio-serra di Firenze, tra cespugli, bacche, foglie verdi, rampicanti – è diventata un affascinante romanzo vegetale. Ci si troveranno fruttariani incalliti, vegani oltranzisti, animalisti, girasoli che sussultano, mimose pudiche e una radice di mais che prende decisioni fondamentali.
Professor Mancuso, lei è nato a Catanzaro. Non una città particolarmente «verde».
«No, ma a poca distanza ci sono sia i monti della Sila che il mare. In ogni caso, l’amore per le piante è arrivato molto tardi. È normale».
Perché?
«I bambini si affezionano agli animali, in loro rintracciano segnali di affetto, di tenerezza. Le piante sono una cosa da adulti: sono logica, razionalità. Dopo il liceo scientifico ho scelto Agraria e mi sono trasferito a Firenze».
Solo motivi di studio?
«No, anche d’amore. Mia moglie, Annamaria Marras, è fiorentina: l’ho conosciuta da ragazzo, quando lei era in vacanza in Calabria. Dopo l’università ho fatto il dottorato a Pisa e solo allora è cominciato il mio interesse per le piante».
Qual è stato il primo esperimento?
«Nei libri scientifici veniva detto che, quando incontra un ostacolo, la radice lo tocca e poi, attraverso dei piccoli salti, comincia a muoversi fino a quando non trova una via d’uscita per poter penetrare nel terreno. Il mio esperimento dimostrava una cosa straordinaria: la radice si fermava molto prima di toccare l’ostacolo, dunque cominciava a deviare e trovava anche la via più breve per aggirarlo. Dunque la radice percepiva l’ostacolo. E la pianta così diventa intelligente».
La reazione del mondo accademico?
«Mi hanno preso per pazzo».
Addirittura.
«La mia fortuna è stata che io avevo già il mio lavoro all’università. Se fossi stato un ricercatore precario oggi la mia carriera non esisterebbe e sarei uno sconosciuto. Mi attaccarono ferocemente e accadde una cosa molto grave».
Che cosa?
«Io, assieme ad un collega tedesco, avevo pubblicato il mio articolo scientifico sull’intelligenza delle piante su una rivista importante, Trends in Plant Science. Ebbene, una quarantina di accademici italiani su quella rivista scrissero un articolo per screditarmi. Mi creda, nel mondo accademico questo non avviene quasi mai. Così come non succede quello che vidi in Germania: ad una conferenza scientifica, con dei colleghi in sala, metà uditorio ad un certo punto abbandonò la stanza. Un oltraggio».
Perché si fa fatica ad ammettere che le piante «sentono»?
«Perché abbiamo un culto del cervello spropositato. Lo consideriamo un elemento fondamentale che ci distingue come esseri umani. Ma io mi rifiuto di credere che sul pianeta solo lo 0,3% delle creature (cioè noi e gli animali) sia una forma dotata di intelligenza, mentre il resto dei suoi componenti, cioè le piante, sia senza».
Lei ha fatto arrabbiare un po’ tutti: cattolici, musulmani, vegani, animalisti.
«I cristiani se la presero quando scrissi che la Genesi non considera le piante come creature di Dio. Ma mi scusi: se Noè imbarca solo animali, quel carico che scampa al diluvio universale alla fine morirà di fame. È assurdo. I musulmani mi attaccarono quando dissi che nemmeno loro considerano le piante come creature di Dio, poiché la loro arte, che ha il divieto di raffigurare esseri viventi, è piena di riferimenti vegetali».
Apriti cielo. Nel senso più letterale.
«Lettere di protesta, alcune molto offensive, ma nulla di fronte al mio incontro con i fruttariani americani».
Be’, ma a rigor di logica i fruttariani dovrebbero amarla. E invece...
«... e invece no. Questo mio accostare le piante alla sensibilità spaventa quelli che per scelta non mangiano carne animale, in quanto, secondo loro, io starei suggerendo di non mangiare verdure, dunque li starei condannando a morire di fame. Ma è assurdo: io dico sempre che noi qualcosa dobbiamo mangiare per sopravvivere. E allora meglio mangiare le piante che gli animali: prima di tutto perché se mangio un chilo di carne animale è come se stessi divorando mille chili di piante. E poi perché in un certo senso le piante devono essere mangiate: la frutta è fatta anche perché poi, con le feci, il seme possa tornare alla natura. Infatti i fruttariani oltranzisti, quelli che mangiano solo frutta già caduta a terra, non seppero ribattere alla mia osservazione: “Sì, ma voi dove andate a fare i vostri bisogni? Se non li fate all’aperto, nei campi, non vale”».
Gira e rigira, si torna alla «Genesi»: polvere sei e in polvere ritornerai.
«Se posso fare una battuta rispettosa, mi chiedo come mai papa Francesco, che chiama sempre tutti, ancora non mi abbia telefonato. La sua enciclica Laudato si’ è uno straordinario documento di ecologia, di una bellezza rara».
Però le ha scritto il principe Carlo.
«Più precisamente mi ha fatto contattare per interposta persona. Io avevo scritto un articolo scientifico dimostrando che le piante percepiscono i suoni. Non le parole, ma i suoni: come il rumore dell’acqua che scorre, vitale per loro. Come avviene spesso, questo articolo venne ripreso e divulgato dalla stampa, anche quella anglosassone. Carlo lo lesse. È noto che lui, per sua stessa ammissione, parla con le piante. Il principe espresse il suo apprezzamento e mi fece sapere che lui voleva dimostrare come la voce delle persone abbia un’influenza sulle piante».
E come?
«Quello che so è che la Royal Horticultural Society, una importantissima istituzione botanica britannica, ha affittato una serra, ci ha messo mille piante di pomodoro e poi ha installato degli altoparlanti, ciascuno dei quali, in loop, trasmette la voce di uno che legge un libro».
E che cosa è stato dimostrato?
«Quello che già sappiamo: che le piante se ne infischiano delle nostre parole e continuano a crescere come prima».
Però loro «ci sentono».
«Sì. L’ho dimostrato con il girasole. Il mio ufficio è pieno di piante con elettrodi che registrano la loro reazione. Quando vengono sfiorate, trasmettono un impulso. Ma la cosa straordinaria è che la potenza di questa reazione diminuisce a mano a mano che aumenta la frequentazione con la stessa persona. In poche parole: quel girasole si è abituato a me».
Professore, questo vuol dire che le piante memorizzano e imparano?
«Esattamente. L’ho scoperto con un esperimento fatto sulla mimosa pudica, un fiore che, a stimoli tattili o a vibrazioni, “risponde” chiudendo le sue foglie. Avevo costruito una piccola carrucola che portava in alto, vicino alla pianta, un vasetto. Di colpo, il vasetto cadeva, facendo rumore. La pianta “si spaventava” e si richiudeva su sé stessa. Ma, ed ecco la scoperta, dopo o quattro cinque volte la mimosa smetteva di reagire. Aveva imparato che quella caduta non era pericolosa. Poi ho tenuto la mimosa ferma in una serra per due mesi: quando ho riprovato a fare quel rumore, non ha reagito. Non solo aveva imparato, ma aveva anche memorizzato l’esperienza».
Vengono in mente scenari inquietanti.
«Quella è letteratura. La verità è che ci sono forme diverse di intelligenza: le piante imparano a fare una cosa e la fanno sempre meglio».
Arrivati a questo punto, si comprende perché una domanda come «Ma le piante provano sentimenti?» sia fuori luogo: i suoi studi vogliono provare che loro hanno un’intelligenza ma non di quelle simili agli animali, bensì diversa, originale, con leggi proprie.
«È questo il nodo: a me interessa quella forma di intelligenza e come questa possa migliorare il genere umano. L’ho scoperto studiando una radice di mais. Avevo fatto in modo che questa radice arrivasse a trovarsi davanti a tre diramazioni del tubo dove era stata inserita. In una, al termine, c’era del nutrimento; nella seconda non c’era nulla e nella terza c’era un elemento letale per la pianta. Nel 97% dei casi la radice andava verso il nutrimento, una piccola percentuale andava dove non c’era nulla ma una parte, sebbene minima, si dirigeva verso la sostanza dannosa. In un primo momento ho pensato che quelle fossero radici stupide ma mi sbagliavo, perché stavo ragionando in termini di intelligenza animale».
Quella delle piante è diversa.
«Forse superiore: perché quella radice si prendeva la libertà di andare ad esplorare un territorio pericoloso, con consapevolezza. È più libera. Ecco perché io dico che le piante sono molto più sensibili degli animali. Non possono muoversi e dunque devono per forza percepire i pericoli con maggiore acutezza. Quando sento dire l’espressione “sei un vegetale” inteso come insulto penso che sia del tutto sbagliato. Sono le piante che dovrebbero dirci che siamo in uno stato animalesco».
Lei insiste sul fatto che sia la scienza sia noi, comuni cittadini, non sappiamo «guardare» le piante.
«La maggior parte degli scienziati le vede come delle macchine botaniche. Moltissimi cittadini sono ciechi, non le guardano, le considerano “parte del verde”. E io sono convinto che le radici della catastrofe ambientale di cui tanto si parla affondino in questa forma di cecità».