Corriere della Sera, 11 dicembre 2021
L’infermiera che ha paura dei pazienti no vax
«A volte hai paura, per la tua stessa incolumità. Perché un no vax che protesta, ti offende e ti minaccia di metterti le mani addosso, ti mette in discussione nel tuo lavoro, ti fa entrare l’angoscia solo per infilare un ago. Non sei più sicura di quel che fai». Dopo la denuncia di Vittorio Pavoni, primario della terapia intensiva Covid dell’ospedale fiorentino di S. Maria Annunziata a Ponte a Niccheri, sulla difficile convivenza tra sanitari e pazienti no vax più convinti, ora nello stesso ospedale c’è chi ammette di non aver ricevuto soltanto recriminazioni, ma anche minacce e intimidazioni, fino ad aver assistito a veri atti di violenza. Come un’infermiera del pronto soccorso.
Lei ha ricevuto minacce da pazienti no vax? Di che tipo?
«Ti metto le mani addosso, è la peggiore. Quando ti avvicini con una siringa e ti senti dire una cosa del genere, la mano ti trema, non sei più capace di fare il tuo lavoro».
Sono cose che accadono spesso?
«Non succedono spesso, ma non sono casi isolati. È invece molto frequente sentirsi insultata, sentirsi dire che ci dobbiamo vergognare, che siamo parte di un sistema corrotto. Ed è frequente trovarsi di fronte a pazienti che non vogliono essere curati, ma che sono in chiara ipossia (carenza di ossigeno, ndr) e quindi non hanno la lucidità sufficiente per decidere per sé stessi. Così noi dobbiamo provare a curarli e succede anche che esploda la follia violenta».
A cosa si riferisce?
«Personalmente mi è successo una sola volta. Con un paziente che ha spaccato due caschi per l’ossigeno. Aveva 65 anni, no vax, positivo al coronavirus. Viene ricoverato al pronto soccorso di un altro ospedale, dove risulta positivo, ma poi decide di tornare a casa. Contro la sua volontà, viene portato dall’Usca (l’unità medica mobile a domicilio, ndr) in pronto soccorso, stavolta il nostro di Ponte a Niccheri, perché ha difficoltà a respirare. Ma ci offende, ci insulta, parla di “dittatura sanitaria”, nega di avere il Covid, finché non diventa violaceo, non respira davvero più e allora accetta il casco per l’ossigeno. Quando, dopo un’ora, un’ora e mezzo, comincia a respirare meglio, se lo toglie spaccandolo, davanti a noi sanitari spaventati. Ma quando se lo toglie, poco a poco diventa blu una seconda volta, così gli dobbiamo mettere un altro casco per l’ossigeno, finisce per sentirsi meglio e spacca anche quello».
E voi che cosa avete fatto?
«Abbiamo dovuto ricoverarlo nel reparto Covid (in realtà il paziente, in base a una seconda testimonianza, aveva addirittura lasciato il pronto soccorso, firmando le dimissioni, per stramazzare a terra su un’aiuola a pochi metri dall’ingresso dall’ospedale, ndr), dove ho saputo che ha continuato a fare la guerra per non essere curato».
Com’è finita?
«È morto».
Cosa le resta di quell’esperienza?
«Che su una cosa, almeno una, quel paziente aveva ragione».
Quale?
«Era la scorsa estate, lui ci stava urlando un sacco di insulti, ma uno in particolare mi è rimasto impresso: “folli”. Ci pensai bene e mi trovai d’accordo con lui per una volta, mi resi conto che un po’ folli dobbiamo esserlo: bisogna essere folli per stare per ore dentro dei sacchi della spazzatura come vestiti, a 40 gradi per curare qualcuno che “non ha niente” o che comunque non vuole essere curato. E bisogna essere ancora più folli per continuare a farlo dopo due anni di pandemia. Quel che resta è l’amaro in bocca. Noi abbiamo imparato che dobbiamo curare tutti. Ma oggi facciamo fatica a rispettare il nostro giuramento».