Corriere della Sera, 10 dicembre 2021
L’odissea nel cancro di Gigi Ghirotti
«Da quasi un anno m’insegue un odore d’etere, d’alcol, d’antibiotico, di lisoformio, e questo cocktail olfattivo mi pizzica entro le nari, m’inzuppa fino alle ossa, mi s’è attaccato alla pelle...». Dio sa quanto Gigi Ghirotti avrebbe voluto non essere ricordato per lo straordinario incipit di quell’inchiesta su «La Stampa» destinata a diventare un formidabile libro di denuncia edito da Eda col titolo Lungo viaggio nel tunnel della malattia. Lo scrisse a Giovanni Giovannini fin dall’uscita nelle librerie: «Mi auguro che gli amici mi siano amici fino in fondo e che non facciano di me l’Enrico Toti del carcinoma ma sappiano esortare a vedere oltre il caso personale».
Lo infastidiva, autoironico com’era, essere ricordato con quell’etichetta appiccicata. Non era solo quella, la sua vita. «Gigi il Ghiro», per dirla con l’amico Gigi Meneghello, l’autore di Piccoli Maestri col quale aveva studiato al liceo Pigafetta nella sua Vicenza, «era già giornalista a scuola» e scriveva su Enea «con l’aria di un inviato speciale al seguito di quella casinistica crociera: descriveva il cappello da lupo di mare del capitano al timone, le spalle curve sotto gli scrosci, intervistava Acate, Palinuro…».
Nato nella città palladiana il 10 dicembre 1920, arruolato volontario tra i paracadutisti (ma smistato subito in retrovia per essersi fratturato le gambe al primo lancio), coinvolto di striscio nella Resistenza («impugnò solo una pala per seppellire i morti»), esordì nell’estate del ’45 al «Giornale di Vicenza». Ricorderà Renato Ghiotto, il direttore: «Imparò presto tutto ciò che c’è da imparare tranne una cosa: la prudenza. Fu così che, con uno dei suoi primi articoli, mi tirò addosso una sfida a duello. Mettendosi già da allora dalla parte dei poveri e degli umiliati, scrisse a loro nome un pezzo contro uno dei notabili della città, che accusava di aver abusato del suo potere».
Assunto a «La Stampa» di Torino da Giulio De Benedetti dopo una lunga gavetta di pezzi scritti come collaboratore, arrivò ad occuparsi, infaticabile, di tutto. Dagli incontri coi grandi artisti («Un pezzo di pane lungo quindici metri e abbandonato nella piazza di un piccolo paese della Normandia diede a Salvatore Dalí la fama di essere l’uomo più stravagante del mondo») ai ritratti su Eleonora Duse che arrivava ad Asolo «con i bauli dei suoi libri e dei suoi vestiti da palcoscenico» e «schivava la gente, lei che tra gli applausi era vissuta» chiedendo a un fedele cavaliere: «A che ora si può uscire senza esser visti?». E poi racconti magici sul Natale da padre Pio («Nella Betlemme di San Giovanni Rotondo domani a mezzanotte il Bambino sarà deposto sulla mangiatoia da un vecchio frate sulle cui mani misteriosamente fiorisce il sangue») e reportage sui poveri emigrati italiani che in Francia «non solo non imparano la lingua francese, ma dimenticano quella italiana». Per non dire della cronaca sul suicidio Luigi Tenco («Mike Bongiorno, che iersera, poco prima del verdetto, accolse un suo ultimo sfogo, racconta: “Quante volte gli abbiamo detto: ‘Ma perché non ti fai vedere alla televisione? Con l’ingegno che hai potresti guadagnare quel che vuoi!’. Rispondeva sempre: ‘Non ci siamo, non è questo che m’importa’”». O delle denunce sulla miseria nel Delta del Po: «Gli abitanti di Scardovari credono negli spiriti, nel malocchio e nelle streghe. Per cacciare l’emicrania non prendono il cachet prescritto dal medico: scendono negli acquitrini con un coltello in mano e “tagliano” l’acqua del Po. Non conoscono calze. Per tener caldi i piedi dei bambini, le madri pigiano negli zoccoli un po’ di paglia». Era un gigante, «Gigi il Ghiro». Capace di scrivere grandi libri come Mitra e Sardegnasul banditismo isolano o Italia mia benché sul boom economico e insieme sfiziosi elzeviri sui portieri d’albergo che si interrogavano sul doloroso tramonto dello stiffelius e sull’obbligo di contentare i clienti perfino se alle dieci di sera chiedono una zuppa per la loro tartaruga da passeggio.
La malattia, scrive Alberto Sinigaglia presentando la ricca antologia L’inchiesta estrema (Aragno), lo colpì a cinquant’anni come una coltellata. E una sera del maggio ’72, vicino a Piazza Navona, spiegò a Vittorio Gorresio che per carità, al giornale tutto bene, ma «è un certo signor Hodgkin a darmi noia». Nel pomeriggio i medici avevano confermato la diagnosi: aveva il morbo di Hodgkin, un tumore del sistema linfatico. Difficile da curare. Tacquero entrambi. Finché Gigi si scosse: «Sai che ti dico? Credo di poter fare un buon servizio da inviato nel tunnel della malattia del secolo». E «giù a ridere – testimonierà Gorresio – attratto dalla sua trovata affascinante».
«Era proprio necessario che lei informasse milioni d’italiani sulla malattia, rompendo una tradizione di riservatezza che protegge i fatti personali più sgradevoli?», gli chiederà «Panorama»: «Era necessario sì, perché proprio intorno alla malattia la società ha eretto i più feroci e misteriosi fortilizi della riservatezza. Sembra quasi che la malattia sia una colpa, una vergogna da tener nascosta». E questo no, non poteva accettarlo. Anche il rifiuto delle cliniche private per affrontare il calvario nelle camerate a volte luride e caotiche di vari ospedali pubblici era per lui necessario: «Spero mi possano capire almeno coloro della mia generazione che hanno, tra errori e orrori, partecipato e animato le grandi speranze del 1945: le speranze, voglio dire, di un’Italia diversa nella quale, per esempio, non sia lecito guarire o morire in base al censo o al privilegio sociale. Non sono un Enrico Toti della malattia. Mi piace vivere: ho una sana e fottuta paura di morire. Mi fa inorridire la morte idiota, quella da sorpasso, da autostrada, da passaggio a livello, da impallinamento venatorio. Alla morte per malattia cerco di resistere, m’impegno con tutte le forze a ricacciarla indietro. Tuttavia trovo che un epilogo ci dev’essere, ed è giusto che sia affrontato senza piagnistei. Si tratta di un evento spiacevole, ma non innaturale e non evitabile. Era un momento grave per me: scegliere l’uscita di sicurezza individuale, andarmene in Francia a curarmi, mi appariva come una fuga. Una fuga da me stesso, dal mio modo d’essere, dalle mie responsabilità verso coloro che, nel mio Paese, non hanno vie d’uscita».
E raccontò tutto, flebo dopo flebo, in dieci puntate su «La Stampa» e poi in due serate televisive della Rai che gli guadagnarono l’immensa gratitudine di milioni di italiani che avevano vissuto sulla loro pelle le attese interminabili, i pasti pessimi dove appena finito il pranzo arrivava la cena, i pomeriggi di vuoto perché i medici lavoravano in ospedale solo la mattina («Un’acciaieria che spegnesse gli altiforni alle tredici per consentire al personale di trascorrere il pomeriggio in famiglia oppure dove meglio crede, farebbe gridare allo scandalo!»), il disprezzo per la privacy, la morte di compagni di stanza che gli avevano fatto «riscoprire l’amicizia»... Insomma: «Bisogna star molto bene in salute, per potersi permettere il lusso di star male, e per affrontare, con qualche speranza di uscirne, la vita ospedaliera». Se ne andò il 17 luglio 1974. Fino all’ultimo, si seppe, aveva raccomandato alla moglie Mariangela: «Aiutami a rubare alla morte anche un solo minuto. La faremo soffrire».