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 2021  dicembre 10 Venerdì calendario

Biografia di Carmen Consoli raccontata da lei stessa

Carmen Consoli è una donna coraggiosa, intelligente, piena di curiosità. Ama il tempo, la musica, i numeri, il sogno, suo figlio che cresce da sola, come fanno tante donne. E anche qualche uomo. Scrive delle canzoni belle, con una voce che disegna. Questo è stato il nostro incontro.
Ti ricordi la prima voce musicale che hai sentito? 
«Elvis Presley».
Quando l’hai ascoltata?
«Avevo sei o sette anni. Ricevetti da mio padre in regalo questo album, si intitolava proprio “Flaming Star”, c’era un bel ragazzone in copertina. Ascoltai a ripetizione questo disco, neanche tra i più famosi di Elvis Presley. Lo ascoltavo e sognavo, sognavo la voce di questo ragazzo. Ovviamente a casa circolava tanta altra musica: eravamo onnivori. Bruno Martino, tutta la scuola genovese, la scuola siciliana perché la famiglia Consoli era anche amante della musica popolare della mia terra, come quella di Rosa Balistreri. Però c’è una ragione speciale per la quale questo disco mi rimase impresso. Dopo averlo consumato, a forza di ascoltarlo, chiesi a mio padre, che era un vero appassionato e conoscitore di musica: “Papà ma possiamo andare a vedere un suo concerto?”. Papà fu costretto a dare a quella bambina immersa nei sogni e invaghita di Elvis la brutta notizia: “Sai Carmen, purtroppo lui è volato in cielo.”. Quando seppi questa notizia piansi per due giorni, a dirotto. Credo che neanche i suoi parenti più stretti abbiano vissuto in modo così drammatico questo lutto. Io ero piccolina e non ci credevo, non capivo. Sentivo questa musica così presente e non riuscivo a comprendere il fatto che lui non ci fosse più, non riuscivo a separare voce e vita». 
Perché tuo padre era così appassionato di musica?
«Mio padre era un musicista e uno studioso di musica. Lui non suonava soltanto a orecchio, reputava che si dovesse approfondire la musica. La musica è talento e fatica, estro e studio. Di recente ho conseguito un Professional certificate in teoria musicale alla Berkeley proprio perché lui mi aveva insegnato che è una materia che si studia. Puoi arrivare a orecchio alla musica, ma quando la studi ti si apre un mondo affascinante di matematica, di fisica acustica, di connessioni armoniche. Il papà di Marina Rei, purtroppo deceduto in questi giorni, sosteneva che quando smetti di studiare, smetti di suonare». 
Che rapporto c’è tra musica e numeri?
«Un rapporto molto stretto, tanto è vero che c’è una materia che si chiama musica applicata alla matematica. Per esempio un accordo si forma per sovrapposizione di triadi sulla scala maggiore ed è incredibile come alla fine corrisponda tutto, una specie di prova del nove. Ero abituata a sentire un’armonia che mi dava soddisfazione e gioia, poi alla fine, facendo i calcoli, scoprivo che avevo ragione: era un settimo grado semi diminuito messo in tonalità. Numeri, ai quali ero invece arrivata d’orecchio».
Questa dimensione è più Dio o più i numeri?
«Io questo non lo so, perché non ho le prove e non escludo l’esistenza di Dio. Non ti nascondo che mi piacerebbe che ci fosse. Purtroppo non ho la fede per credere ciecamente a questo. Però mi piacerebbe molto. Se Dio ci fosse, sarebbe una bella notizia».
Nel tuo ultimo album ci sono due brani nei quali compare la stessa espressione: «Sta succedendo». Cosa sta succedendo?
«Io amo moltissimo il verbo succedere che, visto come sostantivo, diventa il successo, ma visto come participio passato indica ciò che è già accaduto. Se mi si chiede: ti piace il successo? Certo, ma è già una cosa che fa parte del passato. Mi sforzo di guardare avanti, a ciò che sta per succedere. Spesso chiudo gli occhi e penso che, malgrado le avversità che ci stiamo ritrovando a vivere, sento nel mio cuore che qualcosa di veramente speciale stia per succedere. Ecco perché mi affascina il “sta succedendo”. C’è un’imminenza dell’avvenire che dipende dalla consapevolezza del passato, cioè di ciò che è già accaduto. La storia come fondamento d’identità, la uso per costruire il mio divenire. Vivo in questi tre piani temporali e infatti affido molto al sogno». 
Un’altra frase è «prepariamoci all’impatto». Qual è questo impatto?
«La realtà. Quando il sogno si realizza. Dopo tanto tempo che hai impiegato a inseguire il tuo sogno di una cosa, questa non può essere trascurata. Devi godertela. Noi passiamo molto tempo, prima, a sognare le cose ma poi, quando avviene davvero una cosa bella, le dedichiamo pochissimo tempo. Ecco cosa vuol dire prepararsi all’impatto: fare in modo che non sia mai un’aspettativa delusa. Io non credo alle aspettative, credo ai desideri. Questo impatto ci deve stupire. Dobbiamo vivere e prepararci a vivere ciò che abbiamo sempre sognato, ciò per cui abbiamo combattuto».
Presente e futuro: tuo padre e tuo figlio. Cominciamo da tuo figlio. Raccontami di lui e di te con lui.
«Si chiama Carlo Giuseppe, è un bambino che oggi ha otto anni, ha una bella testa, è molto portato per la matematica. Adesso è arrivato anche a capire il meccanismo delle radici quadrate. Non perché sia un genio, solo perché è appassionato e curioso. Suona il pianoforte e la batteria, compone le sue prime canzoni, esprime i suoi sentimenti. È arrivato in me e ha cambiato totalmente la mia visione sul mondo. Uno parla di aspettative che vengono costantemente deluse, disattese. Invece mio figlio è stato più delle aspettative, più del desiderio che io nutrivo; ha proprio cambiato la lettura che io ho del mondo, di tutto quello che vedo, di tutto quello che vivo». 
Hai deciso che sappia in futuro chi è suo padre?
«Sì».
Mi racconti questa scelta?
«Ho fatto questo intervento a Londra proprio perché c’è la possibilità di poter far conoscere a questi bambini il proprio padre. Quando lui avrà quindici anni per legge conoscerà, se vorrà, il suo papà. Al momento non è intenzionato. Io ho cercato di mandare una lettera per anticipare questo momento perché, chiunque sia questo padre a cui io sono molto grata, secondo me gioirebbe nel vedere un bambino così. Quindi non vorrei fargli perdere l’emozione di farglielo conoscere ora. Però Carlo non è intenzionato, perché ha paura che qualcuno occupi il letto grande che ora divide con me. Mi ha detto però una cosa molto importante: “Potresti traumatizzarmi”. I bambini si abituano a dei riti, delle abitudini e il momento in cui si sconvolge il loro equilibrio può essere pericoloso».
Hai potuto scegliere il padre di tuo figlio?
«Ho potuto».
Sulla base di quali caratteristiche?
«Ho avuto una lista innanzitutto di donatori compatibili. Io sono zero negativo per cui è molto complicata la combinazione anche dal punto di vista biologico. C’erano delle caratteristiche nella sua scheda: gli piace la musica, ha un diploma in pianoforte, ama Bach, Mozart e Beethoven. Lui è medico, studia la filosofia, non è religioso ma ama la filosofia orientale. E anche l’arte contemporanea. Una cosa importantissima è che ama la buona cucina, ha il palato fine. Insomma c’erano tre componenti favorevoli: Bach, la buona cucina, l’intreccio di scienza e musica. D’altra parte è il tipo di persona che forse avrei voluto incontrare, nella vita».
Non hai mai sentito il desiderio di conoscerlo? 
«Tantissimo. Ho una curiosità incredibile».
Parlami di tuo papà. Ogni volta che lo fai ti si inumidiscono gli occhi.
«Ironico, non sarcastico. Rideva con, non rideva contro. Ricordo un papà che mi dedicava veramente tanto tempo a scrivere, a suonare insieme, a spiegare. Mi ricordo un papà chiacchierone che mi spiegava qualsiasi cosa. Di mattina veniva col caffè. Io ero servita e riverita da Peppe Consoli, mio padre. Straviziata da lui. Non ho mai ricevuto uno schiaffo da mio padre, bastava uno sguardo per sentirmi mortificata, quando sbagliavo a fare qualcosa. E poi lui siccome voleva che io suonassi mi mandava nei pub a quindici anni. Ma c’era lui, veniva tra il pubblico con la birra. Era molto fiero. E io felice della sua fierezza».
Quale ti sembra sia la virtù che sta sparendo più pericolosamente? La gentilezza, l’altruismo?
«Empatia. Una notevole diminuzione di empatia, una grande rimonta del narcisismo. Crea sterilità. È tutto usa e getta. Le persone si trattano come se fossero un telefonino. Adesso c’è il nuovo modello quindi cambio. Invece di riparare, perché tanto vale cambiare. Tutto è destinato all’obsolescenza. Ed è brutto, perché ci sentiamo vecchi, ci sentiamo inutili solo perché dobbiamo fare la cosa più bella del mondo: cambiare noi stessi». 
Ti sembra che si stia smarrendo razionalità? La fiducia nella scienza, in fondo, è fiducia nel futuro.
«Il problema è che non si riesce più a scindere il grano dalla gramigna. C’è così tanto. Da una parte è positivo, dall’altra, se non hai una conoscenza e una bussola che ti portino a discernere e a separare bene, praticamente ingurgiti tutto e diventi bulimico di nozioni che non sempre sono vere. Io sono un’illuminista nel cuore: credo molto nella scienza e nel ruolo che la conoscenza ha nell’uomo. È l’origine anche della Rivoluzione francese: un popolo di gente erudita può scegliere, può scegliere in maniera cosciente. E poi in me c’è, in questo campo, un piccolo riferimento alla felicità. Per essere felici bisogna coltivare il tempo. Ci hanno abituato a non aspettare, come se fosse una virtù impiegare meno tempo a fare delle cose. Invece il tempo serve, è utile a sedimentare un dolore, a capire, ad approfondire, a viaggiare. Ad essere felici».
Quale opinione hai dei talent?
«È un trampolino di lancio. Ovviamente io non sarei mai uscita se fossi stata oggi una ragazza di vent’anni. Non ci sarebbe stato spazio per me, perché non ho quelle caratteristiche, non avrei avuto modo neanche di superare le selezioni. Questi ragazzi sono veramente bravissimi, vocalmente parlando, hanno una capacità di esibirsi incredibile, che io non avevo assolutamente. Riescono anche a non far trasparire emotività, quell’emotività che ti fa perdere l’intonazione. Sono perfetti, dei killer. Gino Paoli diceva una cosa incredibile: “Loro sono veri professionisti. Noi siamo dilettanti”. Ha ragione. Loro riescono ad avere un controllo, a vent’anni, che da una parte li aiuta, dall’altra... Non so se sia meglio non emozionarsi e non sbagliare mai».
Hanno meno anima?
«Quello che mi auguro da mamma, guardando questi ragazzi, è che non si facciano travolgere dal sistema. Che chiudano gli occhi e sognino, che pensino sempre a quello che vogliono fare, ad ascoltare il proprio cuore, non quello che c’è intorno a loro. Perché oggi è bianco, domani è nero, non possono essere delle bandiere. Un aforisma molto bello di Seneca dice: “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. Perciò io auguro a questi ragazzi di prendere presto in mano il timone della propria vita».
A Sanremo tornerai?
«Al momento no, non l’ho previsto e soprattutto non andrei in gara. Ma non perché io mi senta superiore, anzi. Sai perché ho smesso di giocare a tennis? Ero anche bravina, ma mi mortificavo quando segnavo il punto, chiedevo scusa all’avversario. Non riesco purtroppo, anche per educazione familiare, a fare pace con questa idea della competizione. Sono competitiva con me stessa, voglio migliorarmi, però non riesco a concepire la gara, mi mette ansia».
Chiudiamo così: la prima sensazione avuta quando hai visto tuo figlio uscire da te.
«La prima sensazione, quando l’ho visto, è stata l’amore più grande che il mio cuore potesse provare e persino immaginare. Non credevo di essere in grado di provare un amore così totale».