Corriere della Sera, 10 dicembre 2021
Il discorso che Hillary non ha mai pronunciato
WASHINGTON Nel giorno della vittoria che non fu, Hillary Clinton avrebbe voluto ricordare sua madre Dorothy, con parole che non aveva mai pronunciato. «Penso a mia mamma ogni giorno. Fu abbandonata dai genitori quando aveva solo 8 anni. La misero sul treno e la mandarono dai nonni in California. Me la immagino in quel viaggio, sola con la sorellina, terrorizzata per quello che sarebbe accaduto. Fu maltrattata dai nonni, ma riuscì a farsi forza e a 14 lavorava come cameriera per mantenersi agli studi. Penso a come mi sarebbe piaciuto sedermi accanto a lei su quel treno e dirle: «Ascoltami, non ti preoccupare, te la caverai. Avrai una bella famiglia con tre bambini. E per quanto ora sia difficile da immaginare, un giorno tua figlia diventerà presidente degli Stati Uniti».
Hillary si commuove, fatica a completare le frasi. È seduta in poltrona, rilassata e per la prima volta legge, a beneficio degli utenti della piattaforma a pagamento «Masterclass», lo «speech» che aveva preparato per l’8 novembre 2016. «Non ho mai condiviso con nessuno questo discorso che riassume chi sono, quali sono le mie speranze, qual è la mia idea di America. Lo faccio con voi perché penso possa essere utile, possa aiutare a costruire la fiducia in sé stessi».
La sconfitta del 2016 fu tanto inattesa, quanto bruciante. Hillary ottenne 65,8 milioni di voti, quasi tre milioni in più di Donald Trump. Ma l’allora costruttore newyorkese vinse a sorpresa nel Nord industriale del Paese e, grazie al meccanismo del Collegio elettorale, conquistò la Casa Bianca.
Nel suo libro di memorie «What Happened» (Simon & Schuster, settembre 2017), Hillary racconta che avrebbe voluto presentarsi sul palco del Javits Center di New York, vestita di bianco «il colore delle suffragette». Oggi, a 74 anni appena compiuti, dal luminoso soggiorno della sua casa di Chappaqua, rivive quell’appuntamento mancato con la grande Storia. O forse solo rinviato, per un’altra donna.
Lo scritto paga dazio alla retorica che affligge quasi tutte le orazioni dei trionfatori. C’è l’immancabile citazione di Abraham Lincoln e dei «Better Angels of our nature», gli uomini e le idee che hanno fondato l’America. C’è l’idea, non solo clintoniana, che gli «Stati Uniti» siano «il più grande Paese mai esistito». E c’è, infine, la promessa di una società inclusiva, «nella quale ciascuno abbia il suo posto, il suo ruolo; una Nazione dove le donne siano rispettate, gli immigrati benvenuti, gli anziani sostenuti; dove ciascuno abbia il suo posto, il suo ruolo, non importa quale sia il suo credo, il colore della pelle, la persona che ami». L’America dell’unità, non del «noi» contro gli «altri». Un modello opposto a quello propugnato da Trump.
Ma lo spunto più interessante è forse proprio il filo che Hillary tende tra l’angoscia di sua madre Dorothy, sperduta in quel vagone, e le generazioni di giovani americani che «mi chiedono sorpresi perché negli Stati Uniti non ci sia mai stata una presidente donna».
L’8 novembre Hillary non indossò il suo completo bianco. Non parlò nel quartier generale già allestito per la grande festa. Ma si presentò, invece, la mattina dopo nella ballroom dell’Hotel New Yorker. Scoprì che in quello stesso albergo sia era rintanato Mohammed Alì, dopo aver perso il match più duro della sua carriera contro Joe Frazier, nel 1971. Hillary annota nel suo libro le parole di quel grande campione: «Non avrei mai voluto perdere, né avevo mai pensato che sarebbe successo; ma ciò che conta è il modo in cui tu perdi. Io non sto piangendo».