Non è andata sempre così, però. Nelle udienze precedenti al-Sharbi ne aveva dette di tutti i colori, dall’orgogliosa rivendicazione di aver combattuto contro gli Usa, all’accusa contro la casa reale saudita di aver fomentato il terrorismo e di sfruttarlo ancora. Perciò vorrebbe essere liberato, ma non rispedito a casa in Arabia, dove teme di fare la fine di Khashoggi. Una storia che incarna le insolubili contraddizioni di Guantanamo e della “guerra al terrorismo”, perché ha messo l’America contro quelli che in teoria dovevano essere i suoi migliori amici nel mondo arabo e musulmano.
Ghassan Abdullah al-Sharbi è nato nel 1974 a Jeddah, da una famiglia così buona che lui sostiene di aver frequentato il principe ereditario Mohammed bin Salman da ragazzino. Il padre lo aveva mandato al liceo negli Usa, e poi a laurearsi in ingegneria elettrica alla Embry-Riddle Aeronautical University di Prescott, in Arizona. Perfetto candidato all’integrazione. Qualcosa però era successo, forse proprio a Phoenix, dove l’ex agente dell’Fbi Ken Williams aveva inutilmente segnalato ai superiori le relazioni pericolose tra un gruppo di sospetti membri di al Qaeda. Anni dopo, infatti, la Commissione di inchiesta sugli attentati del 2001 avrebbe trovato la licenza di volo di al-Sharbi in una busta intestata dell’ambasciata saudita.
Nel 2000 Ghassan aveva lasciato moglie e figlia negli Usa per andare in Afghanistan, dove era finito nei campi di addestramento con Osama. Nel dicembre del 2001 era con un centinaio di mujahideen a combattere a Birmal, Afghanistan. La laurea in ingegneria elettrica lo aveva trasformato nel braccio destro di Abu Zubaydah per costruire bombe, e infatti era stato arrestato durante un raid nella sua base di Faisalabad, Pakistan, nel marzo del 2002.
Via Bagram, poco dopo era arrivato a Guantanamo ed era stato incriminato. Non era difficile, perché lui stesso si era presentato così: «Voglio farvela breve e facile, ragazzi: sono orgoglioso di quello che ho fatto. Ho combattuto contro gli Stati Uniti e sono disposto a pagare il prezzo. Anche se dovessi passare centinaia di anni in prigione, sarebbe un onore per me». Le prove contro di lui però erano state raccolte con il “waterboarding” di Zubaydah, e quindi erano inammissibili. Perciò è finito nel limbo, e adesso è uno dei 39 detenuti rimasti a Guantanamo.
Nel frattempo ha complicato la sua posizione, perché durante la prima audizione col Periodic Review Board nel 2016 aveva rivelato di essere stato reclutato da «una figura religiosa che si faceva chiamare sua altezza», forse membro della casa reale saudita. La quale fingeva di riprendersi i terroristi per riabilitarli, ma in realtà per rimandarli in guerra: «C’è un forte programma di deradicalizzazione in Arabia. Ma non fraintendetemi: sotto c’è un programma di radicalizzazione nascosto. Stanno lanciando altre guerre, incoraggiano gli ex detenuti a combattere la jihad negli Usa». Quindi aveva aggiunto: «Se mi mandate laggiù ad incontrare il mio destino, ne sarete responsabili ». Il Pbr gli aveva negato la libertà.
Ora ci risiamo, dentro una stanza del Pentagono con i vetri oscurati che danno verso la Casa Bianca, dove per entrare abbiamo dovuto lasciare fuori qualunque aggeggio elettronico. Ad ascoltarlo ci sono rappresentanti del dipartimento alla Difesa, Homeland Security, Giustizia, Foggy Bottom, Stati Maggiori Riuniti e Direzione dell’Intelligence. L’avvocatessa dice che Ghassan sta male, e con la sua laurea potrebbe lavorare nel settore elettronico o insegnare. Ammesso che qualche genitore sia disposto a mandare i figli a scuola da un terrorista. I giudici ascoltano e spariscono, senza fiatare. Si prenderanno qualche giorno per riflettere. Vorrebbero liberarsi di Ghassan, ma il 30% degli ex prigionieri è tornato al terrorismo. E oltre al suo destino, devono decidere anche come sciogliere l’insolubile rompicapo di Guantanamo.