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 2021  dicembre 09 Giovedì calendario

Vite da Quirinale


Dodici Presidenti, dodici vite, ciascuna a modo suo eccezionale, in un Paese che non riesce ad essere normale, stabile, prevedibile. Come vorrebbe e forse come dovrebbe. E che finisce per essere sempre eccezionale suo malgrado. È l’anno di un curioso changeover: 75 anni di storia repubblicana al Quirinale, dove per i 75 anni precedenti ha esercitato i suoi poteri la monarchia dei Savoia.
Un battito di ciglia per la storia, ma interminabile per la pur giovane Repubblica italiana. Un Paese che contiene in sé l’eccezionalità di essere diventato, da agricolo, potenza manifatturiera e industriale, ormai saldamente al secondo posto in Europa dopo la Germania; l’esperienza di una terra di confine ideologico ai tempi della Guerra fredda e della Cortina di ferro in Europa che conosce l’epopea del più grande Partito comunista del continente; i drammi di una terra martoriata dalle mafie, mai troppo lontane da una deriva sovversiva dei servizi segreti deviati e da forze esterne sempre interessate a destabilizzare un Paese cruciale nella creazione della nuova identità europea. Un Paese troppo a lungo in balia di un terrorismo che ha osato l’inosabile con l’assassinio di Aldo Moro.
Visti dal Colle più alto delle istituzioni italiane, questi accadimenti creano un inevitabile filo di continuità negli atteggiamenti tenuti dagli inquilini
del Quirinale. Una storia di avvicendamenti di Governi, di relazioni internazionali, di rapporti tra istituzioni sempre con lo scrupolo di non fare violenza a quella democrazia, prima germoglio con la Repubblica neonata, poi cresciuta nei diversi decenni,
ma per la storia e i suoi tempi pur sempre un’esperienza appena cominciata.
Quella dei presidenti è la storia di un potere che non vorrebbe esserlo, ma che assume contorni estensibili a seconda delle circostanze istituzionali
indotte dal peso del Parlamento e del Governo.
E che esiste, eccome. E pesa.
Arbitro, garante, predicatore, suggeritore. Può oscillare tra un «re travicello», definizione citata da Vittorio Emanuele Orlando nella discussione alla Costituente, e un «capo spirituale della Repubblica», espressione di frontiera usata nel 1947 in un celebre discorso da Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75.
Il Presidente è regista delle crisi o custode della Carta costituzionale, esercita un potere neutro, ma può spingersi fino alla Colonne d’Ercole dell’applicazione presidenzialista della Costituzione. A tratti l’azione dei Presidenti è stata anche una sfida alle forze politiche, spesso imbelli e inadatte, tanto più inadeguate quanto più inclini a evocare l’impeachment,
la messa in stato d’accusa, l’armageddon che la Costituzione riserva al Parlamento nei casi di superamento dei limiti da parte del Capo dello Stato e di rottura degli equilibri tra poteri.
Ma il Presidente è, innanzitutto, una persona e porta nel ruolo carattere, inclinazioni, esperienze, credo e cultura. Che sono suoi e soltanto suoi.
E raccontare quei 12 uomini significa raccontare il loro sforzo di farsi istituzione. Dal pudore che orientò i primi passi istituzionali di Enrico De Nicola, monarchico fervente, all’ansia interventista di Giovanni Gronchi, tanto presente con una sua politica estera da creare imbarazzo al Governo, fino alla forza tranquilla ma inesorabile con cui Sergio Mattarella ha esercitato il suo mandato in tempi di difficilissima gestione delle crisi parlamentari. E poi l’impronta frugale e rigorosa di Luigi Einaudi che per paradosso finì vittima di un pamphlet di Francesco Saverio Nitti che lo accusò di spendere al Quirinale della Repubblica più di quanto non spendesse il re al Quirinale della monarchia. Le gaffe di Giovanni Leone, principe del foro e dello sberleffo, che gli valsero una condanna mediatica, inappellabile e spietata. Il pessimismo profondo di Antonio Segni come tratto
esistenziale costitutivo contrapposto al vitalismo
di Sandro Pertini, forgiato da 15 anni di carcere.
Ancora, il patriottismo dell’ex condannato a morte Giuseppe Saragat, alfiere di un marxismo dolce e utopistico, ancorato a un’idea di Resistenza che
non era quella che studenti e operai affidavano ai primi cortei e alle prime piazze turbolente, non capite dall’inquilino del Colle.
Capite eccome, invece, da Francesco Cossiga,
il presidente silente per cinque anni e per due forsennatamente appeso alla sua politica delle esternazioni con cui voleva persuadere una classe politica pigra a comprendere il nuovo mondo creato dalla caduta del Muro di Berlino.
E ancora l’idea moderna della patria proposta dalla pedagogia civile di Carlo Azeglio Ciampi: un’Italia inserita a pieno titolo nella grande patria Europa,
grazie a cittadini consapevoli e forti della
loro storia, ma proiettati in un’idea nuova
e positiva del Vecchio Continente, l’Europa che dice addio per sempre alle guerre.
La laicità dello Stato difesa dal cattolicissimo Oscar Luigi Scalfaro, il presidente che recitava il rosario ogni giorno, ma sapeva bene quali fossero i confini tra Stato e Chiesa. E l’idea di uno Stato liberale perseguita con regìa attenta e costante da Giorgio Napolitano,
il presidente dei record: il primo a provenire dalle file
del vecchio Pci e il primo ad essere riconfermato
per un secondo mandato.
Ogni presidente, alla fine, deve mettere in gioco tutto se stesso, la sua personalità, che emerge chiara ben oltre ogni cerimoniale e al di là di ogni struttura protettiva
di consiglieri e consulenti.
E ripercorrere la cronaca di settennato in settennato significa, alla fine, avventurarsi nelle scelte che la coscienza e l’indole dei diversi Capi dello Stato hanno reso possibili. Dai Governi del Presidente (da Pella a Draghi) alle missioni internazionali, come l’ultima di Sergio Mattarella, propiziatore del Trattato del Quirinale tra Italia e Francia che chiude, per sempre,
la fase ridicola di un flirt avventato con i gilet gialli da parte di certo sovranismo poi archiviato.
L’obiettivo comune dei presidenti, pur tra mille diversità, è uno solo: l’interesse del Paese e l’unità della nazione. Retorica? Non proprio quando l’Italia conosce le fughe in avanti secessioniste o l’incubo di dover far prevalere l’interesse della salute pubblica sulle libertà
di persone e territori, come ci ha insegnato il Covid.
Potrà anche essere retorica. Forse. Ma con le cose del Quirinale la retorica c’entra. Perché è il giusto abito di parole con cui si veste in genere l’istituzione.