ItaliaOggi, 9 dicembre 2021
I vecchi? Corteggiatissimi consumatori
La vecchiaia è un tema non accademico. Lo abbiamo riscoperto drammaticamente in questi mesi, in cui un virus subdolo e aggressivo miete vittime soprattutto fra quelli che un tempo, con una solennità che oggi appare un po’ ridicola, venivano chiamati vegliardi (l’età media dei decessi da Covid-2 è di ottanta anni). Beninteso, accanto alla vecchiaia anagrafica, biologica e burocratica (l’età del pensionamento), c’è anche la vecchiaia psicologica (la «senilità» raccontata da Italo Svevo nel romanzo omonimo). Ma dalle sofferenze della vecchiaia psicologica ci si può riprendere. Più difficile è riprendersi da quelle dell’invecchiamento biologico, anche se la medicina e la chirurgia moderne spesso fanno miracoli. Ecco, dalla pandemia che sta colpendo il pianeta, in cui la sorte di un contagiato ultrasettantenne (non nascondiamocelo) può dipendere dalle risorse scarse e dai mezzi limitati del sistema sanitario, le generazioni della terza e quarta età rischiano di uscire devastate.
D’altro canto, l’emarginazione dei vecchi, in un’epoca in cui il progresso tecnico è impetuoso, è un dato di fatto impossibile da ignorare. Un progresso talmente rapido da lasciare indietro chi si ferma per strada, o perché non ce la fa più o perché «preferisce sostare per riflettere su se stesso, per tornare in se stesso, dove -come diceva sant’Agostino- abita la verità». Nella nostra storia letteraria non mancano i trattatelli che esaltano le virtù della vecchiaia: dal Cato maior di Cicerone (44 a.C.) al De remediis utriusque fortune di Francesco Petrarca (1354-1366), fino all’Elogio della vecchiaia (1895) del positivista darwiniano Paolo Mantegazza, che si libera del pensiero della morte con uno sbrigativo «basta non pensarci». Norberto Bobbio considerava queste opere apologetiche e stucchevoli. Tanto più fastidiose quanto più la vecchiaia è diventata un grande e irrisolto problema sociale, e non solo perché allude a un preoccupante declino demografico dell’Italia: «Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità / poi avanza tremando la vecchiaia e dura, dura / un’eternità», poetava Dario Bellezza.
Tuttavia, in un mondo globalizzato è pressoché inevitabile che i media veicolino un’immagine dell’anziano (termine più neutrale) felice e sorridente, che può godere di una bevanda gustosa o di una vacanza attraente. E così anche lui diventa un corteggiatissimo consumatore. In una «società dove tutto si può comprare e vendere, dove tutto ha un prezzo, anche la vecchiaia può diventare una merce come tutte le altre. Basta guardarsi attorno, allungare il proprio sguardo negli ospizi e negli ospedali, o nei piccoli appartamenti della povera gente che ha un vecchio in casa da sorvegliare e continuamente curare (…), per rendersi conto di quanta sia falsa la raffigurazione non disinteressata, ma interessatamente lusingatrice, del ’vecchio è bello’. Formula banale (…) che ha sostituito l’elogio del vecchio virtuoso e sapiente» (Bobbio, De Senectute).
Il vecchio imperturbabile di una certa tradizione retorica e il vecchio disperato per l’avvicinarsi della «finis vitae» sono due atteggiamenti estremi. C’è quello sereno e quello mesto, chi ancora assapora i propri successi e chi non riesce a cancellare dalla memoria le proprie sconfitte. Tra questi due estremi vi sono infiniti altri modi di vivere la condizione senile: l’accettazione passiva, l’indifferenza, l’ostinazione di chi rifiuta di vedere le proprie rughe e si camuffa con la maschera dell’eterna giovinezza; oppure la ribellione, attraverso l’incessante sforzo di continuare il lavoro di sempre; o, al contrario, il distacco dagli affanni quotidiani e il raccoglimento nella riflessione e nella preghiera. Una realtà proteiforme esplorata con sapienza clinica dall’analista lacaniano Francesco Stoppa nel suo ultimo libro, Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza (Feltrinelli, 2021)