Linkiesta, 9 dicembre 2021
Kendall Roy è il Čechov che ci possiamo permettere
E se il senso del ridicolo fosse sopravvalutato, e la tifoseria sottovalutata? Lo so, lo so: ho passato gli ultimi anni a invocare il primo e stigmatizzare la seconda. Epperò. La più interessante operazione comunicativa che abbia visto da molto tempo in qua è quella che sta avvenendo in questi giorni intorno a Succession.
Succession è uno sceneggiato televisivo che va in onda sulla stessa piattaforma di Sex and the city in America (Hbo) e in Italia (Sky). Questa settimana si dovrebbe parlare solo del nuovo Sex and the city, che oggi debutta dopo mesi di foto dal set ogni giorno sui tabloid, di indiscrezioni, di copertine, di cinquantenni smaniose che rivogliono la serie dei loro trent’anni, e le chiappe sode e i vini cattivi e tutto quello di cui credono d’avere nostalgia. E invece.
E invece delle nuove avventure sentimentali delle adolescenti anziane non frega niente a nessuno, giacché domenica sono successe due cose. È andata in onda la penultima puntata della stagione di Succession, e il New Yorker ha pubblicato un ritratto di Jeremy Strong, l’attore che interpreta Kendall.
Parliamo prima del New Yorker, così chi non ha ancora visto l’ottava puntata della terza stagione di Succession – che in Italia va in onda tra dieci giorni – può leggere un altro pochino prima ch’io cominci a rovinare sorprese. Anzi, smettete di leggere qui comunque. Se capite l’inglese e avete due ore da perdere (trattasi d’una ventina abbondante di cartelle), mollate la mia analisi delle opposte tifoserie e andate a leggere un’intervista così favolosamente sgradevole che ieri Jessica Chastain ha twittato che Jeremy è una persona tanto carina e quello è un ritratto di parte.
Non mi viene in mente un giornalista italiano che sia uno che scriverebbe un articolo così irresistibile. E non perché fazioso (Jessica, sei tanto bellina, ma non sai quel che dici). È un articolo pienissimo di testimonianze. Poi certo, l’autore avrà scelto cosa includere e cosa no (è il modo in cui un articolo si differenzia da un comunicato stampa), ma non si può dire che non sia un ritratto informato: c’è più gente che dice la sua su Jeremy Strong – amici, colleghi, conoscenti – di quanti parlino normalmente ai funerali di qualcuno.
Il mio dettaglio preferito è quello in cui l’autore sta facendo il bancomat e lo chiama Matthew McConaughey, amico di Strong, per dirgli sostanzialmente la stessa cosa che gli hanno detto gli altri attori di Succession, e che gli ha detto Aaron Sorkin (che l’ha diretto in The Trial of the Chicago 7), o Michelle Williams, che lo ospitò quand’era giovane e squattrinato: Jeremy Strong è un pazzo invasato.
Per spiegarne l’ossessività si può usare un aneddoto consunto – lo fa l’autore dell’articolo – dal set del Maratoneta. Il momento in cui un attore inglese – cioè uno per cui fare l’attore è un lavoro come un altro, che peraltro è lo stesso approccio che ha Brian Cox, che in Succession è il patriarca Logan Roy – incontra un fanatico del metodo Strasberg e dell’immedesimazione. Laurence Olivier, vedendo che Dustin Hoffman si sta sfiancando per fare la parte dell’insonne, gli dice qualcosa come: ragazzo mio, ma non hai preso in considerazione la possibilità di recitare?
Oppure si può riportare uno dei mille aneddoti inediti presenti nell’articolo, quelli che servono a spiegarci che, per interpretare quella parte inconsapevolmente tragica, ci voleva uno che ci credesse, e se Strong è un Kendall perfetto è perché è totalmente mancante di senso del ridicolo, e se Logan può trattare con così convincente condiscendenza il figlio è perché Brian scuote la testa di fronte al delirio ossessivo di Jeremy. In questa genia di storie, la mia preferita è lo scambio in cui, dopo che tutti hanno provato a dire a Jeremy Strong che Succession fa ridere, che sì, è un dramma, ma un dramma comico (non dicono «è la tragedia d’un uomo ridicolo» perché sono pur sempre americani), dopo che lui ogni volta non ha capito di cosa parlassero, dopo tutti prova a dirglielo anche l’intervistatore, e Strong risponde: ma nel senso in cui è comico Čechov?
Questo è il momento in cui dovete chiudere questo articolo, oppure non lamentarvi poi se v’ho rovinato la sorpresa. Nell’ottava puntata della stagione, andata in onda in America in contemporanea all’uscita del New Yorker, succedono due cose. Una è che Roman – il fratello non al centro del dramma stagionale, interpretato da un attore che prende tutto assai meno sul serio di quanto faccia Jeremy Strong – si sbaglia a mandare una foto del proprio cazzo. Vorrebbe mandarla a una persona, e sbaglia destinatario.
Ieri ho letto su Vox un articolo che iniziava dicendo: quando ho visto la puntata ho pensato si sarebbe parlato solo di quello. Meno male. Mi sento meno sola. Anch’io ero pronta a non parlar d’altro per giorni, stai col fratello disperato o con quello cialtrone, nello sceneggiato ma anche nella vita, vuoi in parlamento gente che si fotografa l’arnese o gente che prende la vita fin troppo sul serio, vuoi al potere cazzoni che ti somiglino o pallosi con cui non andresti mai a cena?
Ma invece è arrivato un finale in piscina (la puntata è ambientata in Toscana) che a me (gheparda della notizia) pareva un omaggio al Laureato, e invece la critica americana ha compattamente deciso significhi che Kendall muore. Se il personaggio non morisse, d’altra parte, nessuno avrebbe mai dichiarato nulla al New Yorker: mica dici che consideri il tuo collega un pazzo ossessivo, se tra qualche mese te lo ritroverai sul set.
E quindi sono quattro giorni che non penso ad altro. Kendall sarà vivo o sarà morto? Il lato comico dei Roy sarà brasato dall’ombra del fratello precocemente morto? E quello che ha mandato la foto di cazzo a qualcuno con cui non avrebbe mai voluto sextare: la sua carriera finirà per quello, o le multinazionali sono più indulgenti del parlamento? Tifo perché Roman venga rovinato – almeno lui, nemesi di tutti gli autoscattisti del pisello che restano impuniti nella realtà – e perché Kendall non muoia, e attendo ansiosamente la prossima puntata per una bella rissa con la curva opposta.
Erano anni che non aspettavo di sapere come andasse a finire una storia, e non solo perché il modello «una puntata a settimana» è ormai minoritario, e di solito se vuoi sapere come va a finire ti basta star sveglia tutta notte a vedere l’intera stagione d’un teleromanzo. Erano anni che non me ne fregava niente di sapere come andasse a finire perché ormai si fanno quasi solo storie vere, adattamenti della realtà con sosia del Bagaglino come attori, e insomma American Crime Story m’è piaciuto moltissimo ma sapevo come sarebbe finito: l’avevo visto nei tg degli anni Novanta.
Aspetto di sapere se Kendall sia vivo con l’ansia con cui vent’anni fa aspettavo di sapere se in Sex and the City Big avrebbe finalmente mandato a quel paese Carrie, quella bisbetica narcisista. Adesso che tornano non me ne importa niente del loro matrimonio, ma non vedo l’ora di sapere se Kendall muore galleggiando su un gonfiabile rosa, che più che da Laureato forse è una scenografia da morte d’una influencer postmoderna. Che è il Čechov che ci possiamo permettere, in questo disgraziato secolo.