La Stampa, 9 dicembre 2021
Intervista a Davide Livermore, il regista fischiato alla Scala
«Il tassista che mi ha caricato in via Filodrammatici, il giorno dopo la prima, di certo non mi aveva riconosciuto. Però mi si è messo a parlare del Macbeth , e sa che cosa mi ha detto? Che i suoi tre figli adolescenti l’hanno visto tutto. Agganciati dalla sigla fino alla fine». Son soddisfazioni per Davide Livermore, che dopo il quarto Sant’Ambrogio di fila, di tempo per riposare ne ha ancora avuto poco.
Ci togliamo subito il pensiero, Livermore? Quei buuu alla fine come li ha presi?
«Benone, perché non c’è niente di peggio del successo bulgaro. Consenso unanime vuol dire assenza di dibattito, e l’assenza di dibattito è pericolosissima. Invece mi pare che su questo Macbeth ci si confronti moltissimo, si sia capito quanto parli di oggi. Non ne abbiamo visti forse tanti di tradimenti nella politica dei nostri giorni, tra falsi amici, patti elettorali stracciati e demolizione degli avversari? E poi, guardi: i buuu li avrei presi anche se avessi messo in scena un castello scozzese in scala 1 a 1. Che uno diriga una prima già non è normale, si immagini di metterne quattro una in fila all’altra: mai capitato nella storia, figurarsi se non c’era qualcuno a riportarmi sulla terra dall’iperuranio dove credono che viva. E invece altro che iperuranio, non sono qui certo a mangiare ambrosia, ma a sentire l’odore delle ascelle».
Altro pensiero da levarsi: gli ascolti Rai, inferiori all’anno scorso e alla Tosca di due anni fa. Poco più di due milioni di ascolto contro i due e 600 mila del gala 2020 e i 2 e 800 mila della Tosca da record 2019.
«Però più alti di quelli di Attila, che pure fu considerato un successone. Ascolti prevedibili, perché del Macbeth nessuno o quasi si ricorda un’aria: la percezione di Macbeth e di Tosca è molto diversa. Dal mio punto di vista, poi, Puccini ha già scritto tutto, previsto tutto, come in uno storyboard. Verdi, invece, ti impone di interpretare: se non avessi dato la scossa, se ci avessi messo le cotte, lo spadone a due mani e la brughiera l’avrei tradito».
Gira l’idea che chi ha visto lo spettacolo in tivù abbia avuto una percezione molto differente da chi era seduto in teatro. È d’accordo?
«No, perché qualsiasi spettacolo visto in tivù, se non c’è una cura maniacale e una voglia assoluta di narrazione, per forza diventa poco più di un reportage. Nella collaborazione tra Scala e Rai abbiamo seguito un percorso differente, fin dai tempi di Attila, scegliendo un linguaggio che permettesse alla storia di diventare emozione. Avevamo il dovere di portare al pubblico che sta a casa un pezzo di bellezza, di dire: innamoratevi o reinnamoratevi di questo patrimonio, è vostro, è per quello che pagate le tasse, è quello che forma una comunità; e a teatro andateci presto. Il senso profondo del 7 dicembre è la celebrazione di tutto il teatro italiano, anche di quello sommerso. Perché se uno ci va, poi non è più lo stesso: il cambiamento è irreversibile, si sente e si ragiona in maniera differente».
A proposito di scene piccole, sommerse o periferiche, lei ha citato espressamente il Cineteatro Baretti di Torino.
«Dove ho lavorato per vent’anni senza guadagnare un euro come direttore artistico. In San Salvario: 112 posti e 25 mila biglietti in un anno, un avamposto che cambia concretamente la vita delle persone del quartiere. E ce ne sono tanti così, fondati sulla passione e sull’altissima professionalità, anche il Teatro Nazionale di Genova dove sto ora, è uno dei primi d’Italia ma sulla passione disinteressata si basa. Questo Paese è obbligato a produrre cultura: vale 55 miliardi l’anno, è la nostra identità. Secondo lei, è più importante imparare l’inglese o che cos’è l’arco a sesto acuto?».
Potendo, tutti e due. Ma intanto, dopo la quarta, arriverà la quinta prima della Scala?
«Di sicuro non l’anno prossimo. È già tutto programmato».
Con un Boris Godunov, si dice.
«Questo non lo so. So invece che alla Scala tornerò a giugno, con la Gioconda di Ponchielli. Due volte in stagione: non posso sognare di più. Quanto a un nuovo Sant’Ambrogio, spero che prima o poi ricapiti. E di sicuro io sarò diverso, perché avrò fatto altre esperienze e perché anche il mondo, intanto, sarà cambiato. Come, nessuno può saperlo» .