La Stampa, 9 dicembre 2021
Michela Marzano fa i conti con il nonno fascista
C’è, nella storia di tutti o quasi tutti, un ingorgo. Un ingorgo che ci determina e, fintanto che non lo indaghiamo, ci domina. Il nuovo libro di Michela Marzano parla del suo ingorgo, di come si è creato. Suo nonno, il magistrato Arturo Marzano, è stato un fascista della prima ora e fino alla fine: contribuì alla nascita della sezione romana dei fasci di combattimento, nel 1919, quando in Italia i fascisti erano poco più di trecento, e quindi farne parte era una scelta precisa, non un fatto di sopravvivenza, e non abiurò mai, tanto che venne poi epurato dalla magistratura negli anni Quaranta.
È una storia che nella famiglia di Marzano è stata quasi completamente rimossa e che lei ha indagato in questo Stirpe e vergogna (Rizzoli) per capire le ragioni di quella rimozione, che è la causa del suo ingorgo: la vergogna. Ha detto: «Ho sciolto questa vergogna. Non ho avuto figli temendo di trasmettergliela». Pietro Senaldi, condirettore di Libero, ha scritto: «A nessuno importa delle tue origini. Non solo: avanzi anche un pensiero eugenetico per cui chi ha degli avi cattivi non dovrebbe avere figli».
Marzano, lei voleva invece dire che?
«Quando ho fatto i conti con il non aver avuto figli, pur avendone sempre desiderati, mi sono accorta che è successo perché non mi sono mai sentita adeguata. In fondo, ho sempre pensato che avrei dovuto evitare che venissero a rimproverarmi d’averli messi al mondo pur non essendo in grado di fare la madre. Poiché molte delle mie inadeguatezze sono derivate dalla vergogna per quel segreto di famiglia, penso che se lo avessi affrontato prima, probabilmente non mi avrebbe ostacolata. Gli psicanalisti lo sanno: i figli sono sempre sintomi dei genitori, che a loro volta sono sintomi dei propri padri e delle proprie madri. Spesso non capiamo il malessere di un adolescente perché non ci chiediamo quale sia il nostro malessere; non ci rendiamo mai conto di quanto poroso sia il legame tra le generazioni, di tutto quello che ci si passa e trasmette: i non detti e il dolore e la frustrazione e la vergogna, appunto».
Siamo se ricordiamo o se smettiamo di farlo?
«Possiamo sapere chi siamo se abbiamo accesso alla nostra storia: soltanto così possiamo collocarci rispetto ad alcuni eventi, riattraversali, e prenderne le distanze. La resilienza di cui si parla tanto è questo: ricollocarsi rispetto a ciò che è accaduto nel proprio passato per elaborare il trauma che ha generato. Ho ereditato la vergogna di mio padre, che per tutta la vita ha fatto scelte diverse, diametralmente opposte a quelle di mio nonno, forse per correggerle».
E lei ha voluto fare una correzione?
«Per me conta capire cosa è successo e perché abbiamo voluto rimuoverlo. È la stessa rimozione di cui soffre questo paese. In Italia fatichiamo a fare i conti con il passato: in Germania c’è stato un presidente che, nel 1985, tenne un bellissimo discorso in cui ricordò che nei campi di sterminio nazista erano morti milioni di ebrei, rom, omosessuali e se ne assunse la responsabilità, in nome di tutto il popolo tedesco. Noi abbiamo dovuto aspettare Sergio Mattarella per sentire parlare chiaramente di nazifascismo ed è stato un tassello importante nella decostruzione del mito degli italiani brava gente, nel quale continuiamo a trastullarci».
Per questo non riusciamo a eliminare i rigurgiti fascisti?
«Non sono fascisti solo gli attacchi alla CGIL. Lo squadrismo da noi è un modo di discutere. Persino per questo libro ho ricevuto attacchi squadristi».
Che cos’è la complicità, per lei?
«Sarei stata complice se, dopo aver scoperto il passato di mio nonno, non ne avessi parlato».
Siamo responsabili di chi siamo?
«Terrei distinti il piano dell’essere e quello del fare. Ci sono cose che non dipendono da noi eppure ci formano e determinano. Poi ci sono le cose che scegliamo di fare e di quelle sì che siamo responsabili».
L’odio nasce dal dolore?
«Può provocarne, ma il dolore non giustifica l’odio».
Si commette il male sempre per una ragione?
«Il male è tutto ciò verso cui siamo impotenti. Dobbiamo cercare di spostarci dal perché al come, per cominciare a vivere stando un passo accanto alla sofferenza».