la Repubblica, 9 dicembre 2021
Licenziati da un robot, a rischio 7 milioni di italiani
Ci sono tra i quattro e i sette milioni di lavoratori italiani che nei prossimi anni rischiano di perdere il posto ed essere sostituiti dalle macchine. E saranno molto più uomini che donne perché i robot non possono fare le maestre d’asilo o curare ed assistere le persone, attività in cui è maggiore la presenza femminile. E invece sono più esposti all’automazione gli addetti alla contabilità o alle consegne, i centralinisti, i portieri, chi opera nell’assemblaggio e nella logistica, i cassieri e le cassiere. Tutte le attività nelle quali sono maggiori le funzioni di routine (manuali e/o cognitive) e c’è poco spazio per la percezione, la manipolazione, l’intelligenza creativa e quella sociale.
Per la prima volta uno studio scientifico (“Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia”, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Stato e Mercato del Mulino) stima le probabilità di automazione di 800 professioni, quelle contenute nel database Istat-Inapp. A scriverlo sono stati tre economisti, Mariasole Bannò, dell’Università di Brescia, Sandro Trento ed Emilia Filippi dell’Università di Trento. Il rischio cambia (e non di poco) a seconda dell’indice che si utilizza: applicando l’ occupation- based approch, fondato sull’idea che sono le professioni ad essere automatizzabili, il 33,2 per cento dei lavoratori italiani (circa 7,12 milioni di addetti) è ad alto rischio di sostituzione, mentre seguendo il task-based approch, secondo cui sono le attività lavorative ad essere automatizzabili, la percentuale di lavoratori ad alto rischio scende al 18,1 per cento (pari a 3,87 milioni di addetti).
Resta il fatto che l’Italia è diventato uno dei Paesi nei quali sta crescendo di più il rischio-automazione. Per diverse ragioni, ma innanzitutto perché il sistema produttivo ha accumulato ritardi nell’introduzione delle nuove tecnologie. A pesare sono state le dimensioni delle aziende (da noi le piccole e piccolissime imprese sono la stragrande maggioranza e investono meno risorse nell’innovazione tecnologica rispetto ad una media o grande), l’estesa presenza del cosiddetto “capitalismo familiare” che tende a contenere i cambiamenti e pone molta attenzione ai dipendenti, alcuni vincoli normativi, infine, nella regolazione del mercato del lavoro. Fattori che – scrivono i tre economisti – «fanno sì che l’automazione effettiva in Italia sia probabilmente minore di quella potenziale ». Indipendentemente dall’approccio, la quota di uomini che realisticamente rischia il posto di lavoro per colpa delle tecnologie è più alta rispetto a quella delle donne. Ed è la prima volta in assoluto che si studiano gli effetti della robotizzazione distinguendo per genere. La maggiore esposizione al rischio degli uomini – scrivono Bannò, Filippi e Trento – «potrebbe essere dovuta al fatto che in Italia l’occupazione femminile è maggiore in settori nei quali meno elevato è l’impiego di robot e di altri macchinari di automazione; si pensi ai servizi di cura della persona, alla sanità e ai comparti dell’industria come l’agroalimentare nei quali maggiore è la presenza femminile». I settori nei quali è comunque più bassa la probabilità di automazione sono: management e finanza, ambito legale, istruzione, assistenza sanitaria ed arte. «Queste professioni – si legge nello studio – richiedono un livello di istruzione elevato e sono caratterizzate da una quota rilevante di compiti “strettamente umani” tra cui creatività, adattamento, gestione delle relazioni interpersonali, formazione, influenza, collaborazione con altre persone». L’istruzione è fattore che alza le difese dalla minaccia dell’automazione, ma non sempre. Ci sono infatti professioni che richiedono un basso livello di istruzione e che spesso ricevono bassi salari ma che presentano una bassa probabilità di automazione: vale per i fotografi, i sarti, gli idraulici, i parrucchieri e i camerieri, per esempio. Dall’altra parte non mancano professioni che presentano una probabilità di automazione alta ma che impiegano lavoratori con alta o media istruzione come i contabili, i fiscalisti e gli addetti alle buste paga.
Che fare per proteggersi (sempre che si possa) dall’aggressione dei robot? Aumentare – suggeriscono i tre economisti – le opportunità di impiego nei settori in cui è più difficile sostituire l’a ttività umana, come i servizi alla persona, il turismo, la sanità e l’istruzione; incentivare le start up tecnologiche «che oggi richiedono competenze scientifiche, tecnologiche e manageriali molto elevate». Infine «c’è anche un semplice problema di rendere conveniente il lavoro umano magari rivedendo la tassazione del lavoro e il cuneo fiscale».Ricordandoci, comunque, che i giganti del nostro tempo, Google, Amazon, Facebook o Apple, occupano in proporzione ai loro fatturati un numero di lavoratori davvero esiguo rispetti a quelli che occupavano i grandi gruppi del Novecento come General Motors.