la Repubblica, 9 dicembre 2021
In cella Zaki leggeva Elena Ferrante
MANSOURA (EGITTO) — Ventidue mesi cancellati in un secondo. È il tempo che ci mette Hala, la madre di Patrick Zaky, a saltare al collo del figlio quando esce dal commissariato di Mansoura. Ventidue mesi fatti di notti passate a terra, di affetti mancati, di sogni interrotti: mesi di cui sulla faccia di Patrick si vedono tutti i segni. Dopo l’ordine di scarcerazione firmato due giorni fa dal giudice, lo studente egiziano dell’università di Bologna ieri intorno alle 15 è uscito dall’ultima delle sue prigioni. Lentamente, con in spalla la borsa con gli effetti personali e in mano la busta che gli ha preparato la famiglia con gli abiti puliti: non si è fermato dentro un secondo in più del necessario, neanche il tempo di cambiarsi. Quando appare al cancello, indosso ha ancora la divisa bianca dei carcerati, sul volto lo sguardo serio: è solo al quarto abbraccio che lo stritola – quello dell’amica del cuore Josra, dopo quello della sorella Marise e della fidanzata Reny – che Patrick alza gli occhi, guarda il cielo e finalmente capisce. Il suo volto si apre nel sorriso che tutti abbiamo imparato a conoscere dalle foto: oggi è il giorno della libertà.
«Patrick ciao, come stai?», gli chiediamo. «Bene, sto bene. Grazie per tutto quello che avete fatto», risponde. Il tempo di una frase, poi il team tutto femminile che ha gestito questi mesi difficilissimi – sorella, fidanzata e amica del cuore, oltre all’avvocatessa Hoda Nasrallah, che lo aspetta al Cairo – lo carica in macchina. «Lasciateci andare», dicono, severe, in coro. Le ragazze emozionate che fino a pochi minuti prima discutevano di chi avrebbe abbracciato per prima l’oggetto del desiderio, chi dovesse scattare la foto e a dovesse essere inviata, nel giro di pochi minuti si sono trasformate in severissime guardie del corpo. «Non può parlare ora», insistono. Lui le asseconda: «Forza Bologna – dice – ci sentiamo dopo, prometto» dice. Ha le mani completamente nere, ma giura che non è nulla: «Sto bene, davvero», ripete. Lo sportello si chiude e la macchina parte verso una vita che, si capisce subito, almeno per il momento non sarà la stessa che Patrick ha lasciato la notte del suo arresto all’aeroporto del Cairo, il 7 febbraio del 2020.
Perché Patrick non è ancora libero del tutto e le sue donne, meglio ancora di lui, questo lo sanno benissimo. Due giorni fa un giudice, accogliendo finalmente la richiesta dell’avvocatessa Nasrallah, lo ha scarcerato, ma il primo febbraio dovrà tornare in aula, qui a Mansoura, per rispondere dell’accusa di diffusione di notizie false e dannose per lo Stato egiziano: rischia fino a cinque anni di carcere. Poi, ancora sospeso, c’è un secondo provvedimento, quello aperto l’estate scorsa, senza che alla difesa ne fosse comunicata notizia: l’accusa è associazione terroristica, reato che l’Egitto imputa oggi a migliaia di detenuti politici. La pena, in questo caso, va fino a 12 anni. La speranza è che questo secondo provvedimento venga lasciato cadere e che per il primo venga una comminata una pena lieve, uguale o inferiore ai mesi già scontati in carcere. In questa maniera i pubblici ministeri egiziani avrebbero la soddisfazione di una condanna, ma Patrick sarebbe definitivamente libero e potrebbe tornare in Italia: completare i suoi studi a Bologna, soprattutto, come chiede dall’inizio di questa vicenda. Perché tutto questo avvenga però, ora occorre tenere un profilo basso, bassissimo: è questo uno dei punti chiave della trattativa che nei mesi scorsi ha coinvolto la rappresentanza diplomatica italiana al Cairo, quella americana e la controparte egiziana. Per questo, ai giornalisti che lo aspettano fuori dal commissariato e che poi lo vanno a trovare a casa, Patrick può dire pochissimo. Per questo, le sue donne vigilano su ogni sua parola con la massima attenzione, molta più di quella che, si percepisce immediatamente, ci metterebbe lui.
«Benvenuta, benvenuta». Il sorriso con cui ci apre la porta di casa un’ora dopo averci salutato in strada questo lo illustra benissimo. Abbandonati gli abiti bianchi, indossa jeans scuri e una maglia nera: ai piedi, finalmente, ha delle scarpe normali, con i lacci, non quelle da carcerato con cui lo abbiamo sempre visto. Intorno a lui scodinzola felice Julie, la cagnolina di famiglia: gli ha già riempito il golf di peli bianchi, ma non ne ha ancora abbastanza. Vorrebbe stare sempre in braccio a lui. Patrick ci fa sedere, finalmente rilassato, finalmente simile all’immagine che abbiamo imparato a conoscere dalle foto. È dimagrito, non ha più le guance rotonde: ha sostituito gli occhiali da Harry Potter con una montatura nuova, che lo fa sembrare più grande. Ma è un’altra persona rispetto a quella con cui abbiamo parlato nella gabbia del tribunale poco più di due mesi fa. Avrebbe una gran voglia di chiacchierare e a stento si attiene alle regole che gli sono state dettate: «Sto benissimo. Sono davvero felice. E sono ancora sotto shock – ci dice – quando mi hanno portato alla stazione di polizia non avevo capito cosa stesse succedendo, non mi avevano detto che mi avrebbero rilasciato. Pensavo che volessero farmi rispondere di altre accuse e anche quando mi hanno detto che stavano per lasciarmi andare non ci credevo: ero convinto che mi stessero prendendo in giro. Ma ora sono qui con la mia famiglia, la mia fidanzata e i miei amici. E sono felice».
Sulla sua testa, una enorme immagine di Cristo, il simbolo della devozione che non ha mai abbandonato questa famiglia e che ha aiutato soprattutto la signora Hala ad andare avanti in questi mesi. Patrick neanche la guarda, tutto concentrato com’è a seguire quello che accade intorno a lui. Cosa vuoi dire all’Italia? «Grazie. Grazie ai tutti gli italiani, ai partiti politici che hanno preso a cuore il mio caso. E prima di tutto, Bologna: grazie. Bologna è la mia città, la mia università, la mia alma mater. Tornerò il prima possibile, perché lì c’è la mia gente. Grazie a Amnesty International, a Riccardo Noury a tutto il suo gruppo. E grazie alla mia professoressa, Rita Monticelli, la mia mentore». E con l’italiano come te la cavi dopo due anni in carcere?. «Non troppo bene. Dico solo qualche parola. Allora… Insomma… Parlo italiano così così. Prometto che dalla prossima settimana mi rimetterò a studiare perché quando torno voglio parlare bene». Un’altra risata e il tempo delle chiacchere “ufficiali” finisce qui. Spento il registratore, si rilassa: racconta dei tanti libri letti in carcere. Dostoevskij, Saramago e l’intera saga di Elena Ferrante: «È bellissima – dice – la migliore letteratura italiana che ho mai letto. Non vedo l’ora di andare a Napoli, io adoro Napoli». Ti ci vorrà una guardia del corpo adesso, lo sai? Sei famoso ormai. Ride e anche i volti delle tre donne che seguono passo passo la nostra conversazione per un momento si rilassano. «Lo so, lo so. Va bene lo stesso».
Già, va bene lo stesso. Non è normalità quella che stasera si respira a casa della famiglia George Zaky. Il piccolo salone ricolmo di immagini sacre è pieno di amici e parenti venuti a salutare il ragazzo. C’è poco tempo, perché Patrick vuole andare al Cairo immediatamente, per vedere gli amici dell’università e i colleghi dell’Eipr, l’ong con cui collaborava e che in questi mesi è stata in prima fila nella sua difesa. E per togliersi dall’atmosfera di Mansoura, la città dove tutto ha avuto origine, dove è stato depositato il primo atto di accusa nei suoi confronti, quello che ha portato al fermo del 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo. Di quello che è successo quella notte, delle torture subite, stasera qui nessuno vuole parlare. Il protagonista di questa vicenda probabilmente vorrebbe, perché in fondo è questo il motivo che lo ha spinto a lasciare l’ovattata atmosfera della comunità copta di origine per unirsi ai rivoluzionari di piazza Tahrir prima e agli attivisti dell’Eipr poi. Ma sa che non può. «Ci vediamo in Italia. Magari già per il prossimo semestre», dice. Quello che inizia a marzo. L’obiettivo per Patrick Zaky oggi è questo: e per centrarlo la scelta ora è il silenzio.