Corriere della Sera, 9 dicembre 2021
Parla Patrick Zaki, appena uscito dal carcere
«Sono ancora un po’ confuso, tutto sta andando velocemente. Ma ora sono felice, sono qui con la mia famiglia, con tutte le persone che amo. Tutto qui». Non indossa più la tuta bianca dei detenuti in attesa di giudizio, Patrick Zaki. È seduto nel salotto della sua casa di infanzia a Mansoura. Alle sue spalle un arazzo di spugna che raffigura Cristo. È il più calmo di tutti, nella stanza.
Intorno a lui, il magico «dream team» di donne. La sorella Marise, la fidanzata, un’amica, mamma Hala che, dopo 22 mesi di lontananza, angoscia e paura, ora non lo perdono di vista un attimo. C’erano loro ad aspettarlo fuori dal commissariato di polizia di Mansoura da cui è stato rilasciato ieri dopo 670 giorni di detenzione. E ci sono loro mentre Patrick entra nell’appartamento dove è cresciuto e sull’auto verso il Cairo.
In salotto, intanto, papà George non smette di sorridere un attimo. Zaki ha cambiato montatura di occhiali («l’altra l’ho persa durante un trasferimento da una cella all’altra»). La barba è lunga, il sorriso quello delle fotografie di prima dell’arresto. Sotto il maglione scuro, la maglietta dell’Università di Bologna. Poi i jeans preferiti. I palmi della mani, neri al momento del rilascio, ora sono puliti. Intorno, la cagnetta Julie scodinzola felice.
Patrick, innanzitutto ben trovato. Quando hai capito che stavi per tornare libero?
«Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato. All’improvviso mi hanno portato al commissariato, e hanno iniziato a prendermi le impronte. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi stessero per scarcerare. Ero confuso. Non posso dire tutti i dettagli e preferisco non parlare delle condizioni di detenzione. Ma poi ho capito che c’era una speranza. È la speranza, sai, la cosa più difficile da tenere in vita quando ti tolgono la libertà».
Hai abbracciato prima tua mamma, poi la tua fidanzata e infine tua sorella Marise. Qual è stata la prima cosa che hai detto a questo gruppo di donne che lotta per te da 22 mesi, insieme a tuo padre e tutto lo staff della Eipr?
«Ho detto grazie. E poi “Temam”: va tutto bene».
Patrick ride, si interrompe.
La frase che hai sempre ripetuto a tua madre fin da quando lei stava in angoscia nel 2011 ai tempi della rivoluzione e tu ti eri trasferito a vivere al Cairo…
«Già. Una delle cose che più ti fa soffrire quando sei in carcere è il pensiero del dolore che provochi alle persone cui vuoi bene. Io devo solo dire grazie, grazie all’Italia per essere stata vicina a me e alla mia famiglia. Grazie a tutti quelli che hanno tenuto accesa la luce. E l’elenco è lunghissimo».
Abbiamo tempo, ora.
«Gli amici in ogni parte del mondo, che si sono dati da fare per me. Ma anche la vostra delegazione diplomatica che è venuta alle udienze. Poi l’università di Bologna. Tutti i compagni di master, ma in particolare c’è una persona».
Chi è?
«La professoressa Rita Monticelli. È la mia mentore al master Gemma a Bologna (quando Patrick è stato arrestato nel 2020 stava frequentando il primo semestre). Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto. E poi mia sorella Marise. Ma sicuramente così faccio arrabbiare qualcuno, mi fermo qui».
L’Italia si è adoperata per il tuo rilascio a più livelli. Il premier Mario Draghi ha seguito costantemente il tuo caso. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ti ha dedicato un abbraccio pubblico. L’ambasciatore Quaroni ti ha chiamato al telefono.
«Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza. E sono sicuro che ci sono decine e decine di altre persone cui dovrò stringere la mano».
Anche la società civile ha avuto un ruolo fondamentale. «Aspettavamo di vedere quell’abbraccio da 22 mesi», ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
«Non dimenticherò mai tutte le volte in cui durante le visite mi venivano raccontato delle manifestazioni, delle piazze. E di tutte le iniziative organizzate per chiedere il mio rilascio in questi quasi due anni».
La senatrice Liliana Segre ha votato per la richiesta di cittadinanza dicendo di essere in Aula idealmente come tua nonna, come persona che sa cosa vuole dire stare chiusa dentro stanza da cui non si può uscire. Vuoi dirle qualcosa?
«Mi ha riempito di orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che questo avvenga quanto prima».
Patrick, ora sei libero ma le accuse a tuo carico non sono cadute. Il giudice ha fissato un’udienza all’inizio di febbraio come dice la tua legale Hoda Nasrallah. Pensi di poter tornare in Italia un giorno?
«Spero, ovviamente, che questo avvenga presto. Non so se ci sia un’interdizione per viaggiare all’estero. Per ora so che posso tornare al Cairo».
Dalle tue lettere traspariva grande dolore per il master in studi di parità di genere dell’Università di Bologna che non hai potuto finire. Lo riprenderai?
«Spero davvero presto. Il prima possibile. Non vedo l’ora di poter riabbracciare i miei compagni, i miei professori. E c’è un posto dove vorrei andare prima o poi, in Italia».
Qual è?
«Napoli. Non ci sono mai stato. La mia bisnonna Adel veniva da Napoli. Non parlo così bene l’italiano, ma l’accento di quella parte del Paese mi ha sempre affascinato. Amo molto gli autori napoletani».
Hai potuto leggere in carcere?
«Sì. Dostoevskij, Saramago. E poi L’amica geniale di Elena Ferrante. Il mio preferito, forse. I libri dell’Università invece erano più complicati da avere. Ho provato anche a scrivere qualche volta ma non sempre mi era permesso tenere il blocco».
Già, scrivere… Ti piace?
«Permette di rielaborare, di processare l’accaduto. Una persona a me vicino mi ha insegnato questo».
Alza lo sguardo Patrick, e in cambio dalla ragazza accanto a lui arriva un sorriso di rimando indietro. Ma in quegli occhi c’è anche un rimprovero, dolce. Basta parlare con gli altri. Prenditi il tuo tempo, Patrick. Ricordati cosa ti hanno fatto, sembrano dire quegli occhi.
Dal Corriere il 20 novembre scorso hai ricevuto un premio che speriamo di poterti consegnare molto presto di persona, il premio alla memoria di Maria Grazia Cutuli, l’inviata uccisa in Afghanistan nel 2001…
«Sì, mia sorella mi ha detto. Maria Grazia… questo premio significa tanto per me. Non lo merito, ci sono eroi là fuori che combattono, in Egitto, più di me, molto più di me. Ma è un premio per cui ringrazio di cuore, Maria Grazia è molto molto importante per me, e questo riconoscimento rappresenta un grande sostegno che ho ricevuto dal Corriere, come istituzione. E presto spero di scrivere i miei diari, quello che ho passato, sul Corriere. Aspettatemi!»