il Giornale, 8 dicembre 2021
Rimbaud e il manifesto della poesia moderna
Il 15 maggio del 1871, un poeta adolescente invia a un amico una lettera che contiene due testi in versi e soprattutto folgoranti considerazioni di poetica destinate a rivoluzionare l’idea di poesia nel mondo occidentale. Il poeta è Arthur Rimbaud, diciassettenne abitato da un demone sconvolgente, l’amico è Paul Demeny, anche lui poeta. Ci voleva un editore piccolo e coraggioso e un bravo e originale interprete per farne oggi un prezioso libriccino: La lettera del veggente a Paul Demeny (Oligo editore, pagg. 63, euro 12, traduzione e cura di Davide Bregola).
Il 1871 è l’anno della Comune di Parigi, il poeta vi aderisce con un entusiasmo in cui confluisce tutta la sua ribellione esistenziale contro la borghesia di militari e proprietari terrieri in cui è nato. Ed è l’anno in cui viene in contatto con Paul Verlaine, stringendo con lui un tormentato legame artistico, esistenziale, erotico, destinato a culminare e finire nel celebre colpo di pistola sparato dal poeta più anziano al più giovane. Rimbaud scrive a Demeny in uno stile confidenziale, esibendo giudizi sprezzanti, estremistici, disinibiti, in una specie di grandeur rovesciata in sarcasmo, come solo a un giovane francese poteva riuscire.
I poeti nella storia sono stati spesso versificatori, hanno svilito la poesia in gloria di innumerevoli generazioni di idioti. Racine è un Divino Sciocco. Gli accademici intenti a rifinire dizionari sono più morti di un fossile È ora che il poeta capisca che «Io è un altro», che a lui tocca solo assistere allo sviluppo del proprio pensiero, dare un colpo iniziale di archetto perché la sinfonia rimanga nelle profondità o salti in un balzo sulla scena. La poesia è conoscenza: il poeta cerca la propria anima, la indaga, la scruta, la impara. Diventa veggente, attraverso «l’immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi». È un Maledetto e un Sapiente. La sua lingua è quella dell’anima e per l’anima, e riassumerà tutto: profumi, suoni, colori, pensiero. Profeticamente, Rimbaud scrive che quando finirà la schiavitù della donna, quando la donna vivrà per sé e grazie a sé, diventerà poeta anche lei. Al poeta si chiede il nuovo, si chiede di diventare esploratore dello sconosciuto e dell’infinito in forme nuove, definendo così uno dei cardini della poesia moderna, da Majakovskij a Pound.
Rimbaud distribuisce alla fine pagelle sul grado di veggenza dei poeti prima di lui, un po’ veggenti sono i primi romantici, Lamartine, Hugo («troppo testone», ma i suoi Miserabili sono un vero poema). I secondi romantici sono molto veggenti: ma Gauthier, Leconte de Lisle, Banville lo sono riprendendo lo spirito delle cose morte. Dunque lo è soprattutto Baudelaire, l’autore di Correspondances, teorizzazione della sinestesia, lo sregolato per eccellenza, il ribelle, «il primo veggente, il Re dei Poeti, un vero Dio». Ma il giovane Rimbaud ha il coraggio di scrivere che non basta, che Baudelaire visse in un ambiente troppo artistico, e che la forma in cui si espresse è «meschina». Siamo nel 1871, su queste premesse di poetica Rimbaud scriverà durante il corso dell’anno Les mains de Jeanne-Marie, Le bateau ivre, Voyelles. Su queste stesse premesse, sul loro estremismo esigente e sprezzante, dopo pochi anni Rimbaud rinuncerà alla poesia, lascerà l’Europa, vivrà in Africa una vita di avventuriero, di vagabondo e di mercante, forse anche di schiavi. Vivrà dieci anni in ambiente mussulmano, e qualcuno ipotizza la sua conversione all’Islam. Ma alla fine, all’ospedale di Marsiglia si spegnerà nella religione della sorella e della madre.
Resta, adombrata da un grande poeta e intellettuale arabo come Adonis nel suo saggio La preghiera e la spada, la possibilità di leggere in chiave mistica la vicenda umana e poetica di Rimbaud, uno, non