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 2021  dicembre 08 Mercoledì calendario

Intervista ad Alessandra De Stefano, direttore di Rai Sport

Non c’è mai stata prima, ora c’è. Una donna alla guida di Rai Sport. All’estero non farebbe notizia, in Italia sì. Alessandra De Stefano, 55 anni, nata a Napoli, dal ’69 a Roma, sei sorelle e un fratello, sposata con un collega francese dal 2006, «signora del ciclismo», è il primo direttore (lei preferisce questo termine) del settore. In un momento in cui l’informazione tv nel mondo ha smesso di essere la prima fonte tanto che anche i dati dell’Nbc per i Giochi di Tokyo rivelano un calo di pubblico del 40% rispetto a Rio 2016, ma una forte crescita dello streaming su piattaforme digitali e social.
Come pensa debba cambiare il racconto sportivo in tv?
«Credo che in questo momento siamo diventati spettatori più impazienti. Forse il Covid ha cambiato il nostro rapporto con la tv, spesso foriera di brutte notizie, dato che l’informazione primaria si è concentrata sulla diffusione del virus. Sul modo di narrare lo sport, anche nelle telecronache, vorrei più immagini e meno verbosità. Ogni sport ha una sua geografia: suoni, rumori, atmosfere. Chi guarda deve poter respirare un po’ quel clima, non ha bisogno di sovrapposizioni di parole. A volte troppa voce può distrarre. Tamberi che vola, Tortu che nella staffetta si butta sul traguardo, vorresti essere lì con loro. Il telespettatore vuole condividere, non essere sopraffatto».
Lei ha deviato verso lo sport mentre stava per laurearsi in Storia dell’arte.
«È vero. Stavo per discutere una tesi sull’evoluzione della pittura dopo la Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci quando vinsi una borsa di studio del Rotary, poi nel ’91 dovevo partire per un corso di giornalismo alla Columbia University a New York, ma mia madre ebbe un ictus, e restai ad occuparmi di lei, anche perché soffriva di depressione. Nel ’92 da collaboratrice Rai venni inviata a Campo de’ Fiori a fare il mio primo servizio, sul derby calcistico, appena tornai in redazione alle 5 del pomeriggio mi dissero che avevano telefonato da casa. Capii subito che mia madre era morta. La passione per lo sport la devo a mio padre, tifoso sfegatato di Merckx e di Maradona, capacissimo di far uscire di casa mia sorella e il marito se solo parlavano male di Diego. Professionalmente devo molto a Claudio Ferretti che mi ha insegnato a guardare in maniera diversa lo sport e che mi volle al Processo alla tappachiedendomi di seguire sempre Pantani. Ho imparato anche da Gianni Mura che al Tour mi chiedeva: “Cosa hai visto, mi racconti?” E quando dovevi riferire a Mura sentivi che dovevi farti acuta e sincera perché la responsabilità era enorme».
Le telecronache a due voci le piacciono?
«Sì se tra i due commentatori c’è sintonia, condivisione e feeling, non solo somma di analisi e di statistiche. Non bisogna sempre dire tutto, a volte le troppe parole ti fanno perdere l’azione che è già finita mentre la stai raccontando. Paolo Rosi a Mosca ’80 in telecronaca disse con un elegante e leggero coinvolgimento: “Sara Simeoni non sa trattenere la commozione come del resto ci capita anche a noi”. Oggi un commento così verrebbe vissuto come inappropriato perché ti accuserebbero di voler essere protagonista. Tante cose sono cambiate: hai una voce schifosa, mi rimproverò un caporedattore,quando ero ragazzina, facendomi venire complessi mostruosi. Ma la mia maestra di canto, sentendomi giù, mi rincuorò: hai solo una voce diversa».
La Rai nello sport è ormai gregaria: ha perso il calcio italiano ed europeo, tranne quello della Nazionale, non ha più la F1, è esclusa da tempo dal grande tennis, e a due mesi dai Giochi invernali non c’è ancora un accordo con Discovery per Pechino.
«Se chiede a me io vorrei tutto. Ma è l’azienda che fa le grandi trattative e abbiamo una concorrenza con poteri economici molto forti. Però questa Rai allo sport ci tiene, anche se non bisogna ripetere Tokyo dove abbiamo preso i diritti basic e non full, quindi solo con alcune ore e senza web. Il tennis delle Atp Finals di Torino su Rai2 è andato in diretta in prima serata, ne sono soddisfatta perché questa è una stagione eccezionale per i giocatori italiani, anche se Berrettini si è fatto subito male e il match di Sinner contro Medvedev era inutile ai fini della qualificazione. Ma questi eventi vanno preparati e accompagnati prima, magari con qualche striscia quotidiana. Non si può pensare di fare buoni ascolti così all’improvviso. Ogni trasmissione, a me non piace chiamarla prodotto, ha bisogno di semina, di creare un’offerta. Il pubblico va fidelizzato, al Giro all’inizio puoi mettere le montagne più belle del mondo ma non farai mai i grandi ascolti che fai nell’ultima settimana».
La sua direzione è una scelta di genere o di merito?
«Credo tutte e due. Sicuramente è libera da vincoli politici. Sicuramente sono una che ha sempre lavorato molto. Tante ragazze mi hanno fermata a Saxa Rubra per dirmi: è bello sapere che si può arrivare in alto. Mi sono data un anno per guardare e provare a cambiare qualcosa, che non significa cancellare, ma aggiungere un altro pezzo. Il modo di raccontare, la grafica, il linguaggio devono andare verso il pubblico che è esigente. Bisogna capire dove va quello giovane a cercare lo sport, l’introduzione nel programma olimpico di skateboard e surf, specialità per adolescenti, mi lascia capire che un margine c’è. Si tratta di modificare certi equilibri, Rai Sport ha 115 dipendenti, siamo una testata che ha una rete e fa anche programmi. Chi lavorerà con me discuterà molto: prima e dopo. È giusto fare i conti con le idee delle altre persone».
Cosa copierebbe dalle tv estere.
«L’essenzialità e il minimalismo nella scelta degli studi televisivi, la fluidità dei raccordi tra i vari segmenti, la compostezza e la qualità degli interventi. Lo sport deve essere autentico, ha un rumore, un odore, un respiro. A me ha insegnato tanto il ciclismo: l’arrivo su via Roma della Milano-Sanremo, dove Merckx per sette volte ha alzato le braccia, quando l’aria si fa rarefatta, l’asfalto inizia a vibrare e inizi a vedere le ombre dei ciclisti. O l’arrivo al velodromo della Roubaix dove corri con un microfono in mano per avere una lacrima o un gesto di rabbia, dove lo sconfitto ha forse più cose da dire del vincitore. Giocavo a basket con un gruppo di amiche e ho imparato che perdere insieme è molto formativo».
Con “Il circolo degli anelli sotto l’albero” il 21 saluterà il pubblico.
«Sì, è una trasmissione già decisa prima della mia nomina. Accetto ma non condivido la regola per cui con un alto incarico non vai più in video. I direttori della carta scrivono sui loro giornali. Da piccola volevo restaurare quadri e scrivevo su un giornalino che avevo chiamato Una finestra sul mondo . La mia finestra si è allargata, ma la voglia è rimasta quella: aprire le imposte, guardare con curiosità e fantasia a tutto quello che c’è fuori».