la Repubblica, 8 dicembre 2021
La prima vita di Caravaggio
Federico Barocci era un pittore che faceva soffrire i suoi committenti. Lento nell’eseguire le opere, condannava a lunghe attese chi desiderava, alla fine del Cinquecento, quelle «dolci arie di teste», la versione aggiornata della grazia che egli per primo ammirava nelle opere del Correggio. Giovan Pietro Bellori, il grande scrittore delle Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni pubblicate nel 1672, immagina un celebre dialogo, in cui Barocci, davanti a una tela, avrebbe risposto al duca d’Urbino, che stava «accordando questa musica». Il suggestivo parallelo fra le pittura e la musica, ampiamente commentato e finora attribuito, anche se con qualche precedente, alla prosa elegante di Bellori, va, con una certa sorpresa, riferito a Gaspare Celio, pittore e scrittore attivo a Roma dalla fine del Cinquecento, controverso protagonista della vita artistica della città. Il passaggio in cui il pittore di Urbino, sofferente per i probabili postumi di un avvelenamento perpetrato tempo prima da suoi colleghi pittori, continuava a concentrarsi sull’armonia delle forme e dei colori, andando «intorno, ad accordare questa musica» compare infatti nelle aggiunte di Celio al compendio delle Vite del Vasari, testo citato da alcuni scrittori seicenteschi, ma del quale non c’erano tracce e che si credeva dunque perduto. Riccardo Gandolfi l’ha ritrovato nella biblioteca dello Stonyhurst College, nel Lancashire, l’ha studiato e commentato fino a giungere all’edizione critica pubblicata da Olschki.
Si tratta di un ritrovamento davvero cruciale per la storia dell’arte del Seicento: una fonte di primaria importanza, scritta da un personaggio che certamente visse molte di quelle dinamiche in prima persona fra Cinquecento e Seicento, prendendo parte a cantieri come la decorazione della Cappella della Passione nella chiesa del Gesù, dove lascia i suoi capolavori nelle due immagini del Cristo in passione, di una intensità drammatica difficilmente raggiunta in seguito. La sua esperienza non è separabile dai commenti e dalle notizie su quello che succede a Roma, e, leggendo il libro, immaginiamo Celio che dipinge al Gesù, fa amicizia con Giuseppe Valeriano, fa i conti con il successo della cappella Contarelli di Caravaggio e con il tumulto naturalistico che ne consegue fra i giovani pittori. Per un breve periodo si trasferisce a Parma e anche qui raccoglie notizie sui contemporanei, ma anche sui capolavori del secolo precedente transitati nelle raccolte dei Farnese; poi torna a Roma, dove annota avvenimenti e prende appunti, non solo in vista della sua Guida, scritta negli anni Venti e poi pubblicata nel 1638, che descrive palazzi e ville di Roma, ma, evidentemente, anche per le sue postille al testo vasariano. Le aggiunte di Celio, i suoi contributi originali, nel libro sono stampate in rosso, in modo che si possa immediatamente, quasi a colpo d’occhio, valutare l’ampiezza dei suoi interventi rispetto al Vasari. C’è dunque molto rosso nella vita di Barocci ed è, ovviamente, tutta rossa la vita di Michelangelo Merisi da Caravaggio, pittore che Celio aveva di sicuro incontrato nelle strade di Roma, in quelle dinamiche di tensioni e rivalità fra gli artisti che, attraverso le scoperte degli ultimi anni, i documenti ci hanno restituito in maniera sempre più precisa e a volte drammatica. Anche qui, come nel caso di Barocci, i debiti delle fonti nei confronti di Celio sono notevoli. In particolare, sembra proprio che Bellori abbia attinto, anche per la vita di Caravaggio, ad alcune notizie riportate da Celio, prima di tutto nel citare l’omicidio commesso da Caravaggio in gioventù a Milano, che avrebbe determinato la sua partenza dalla Lombardia e poi l’arrivo a Roma. Questo episodio, non suffragato dai documenti, viene ripetuto anche da altri biografi e Celio ne è probabilmente la fonte primaria; chissà se avesse avuto delle notizie attendibili o la biografia del Merisi non sia viziata dal desiderio di farlo comparire come un personaggio dalla vita difficile. Assassino fin dagli anni milanesi, giunto a Roma privo di mezzi e di appoggi, il cardinal Del Monte l’avrebbe preso a vivere nel suo palazzo grazie a Prospero Orsi, che quando cercava Michelangelo lo trovava che dormiva «nel poggiolo davanti a Pasquino, che non aveva pa nni attorno». Oltre all’enfasi sulla povertà e sul carattere iroso e indomabile, la biografia di Caravaggio scritta da Celio sottolinea l’importanza della figura di Prospero Orsi, il fatto che presso di lui Caravaggio avesse dipinto un suonatore di liuto, non è chiaro se quello poi appartenuto alla collezione di Vincenzo Giustiniani o più verosimilmente del cardinal Del Monte. Grazie a Celio prende ancora più verosimiglianza l’idea che i primi quadri di Caravaggio o per lo meno i suoi primi soggetti potessero essere eseguiti anche per proporsi sul mercato romano e non direttamente per un mecenate, come acquista forza il ruolo di Prospero Orsi, vero artefice della carriera del giovane lombardo. Sarebbe stato lui a fargli affidare la cappella Contarelli, mosso non solo dalla stima per il suo amico ma soprattutto dall’avversione per il cavalier d’Arpino, che inizialmente aveva avuto l’incarico.
Anche nel testo di Celio, come più tardi in quello famoso di Giovanni Baglione, la critica all’opera di Caravaggio viene affidata a un autorevole pittore della generazione precedente. Se Baglione lascerà a Federico Zuccari il ruolo di smorzare la novità dirompente delle Storie di San Matteo nella cappella, riconoscendovi piuttosto il debito di Caravaggio verso il tonalismo veneto e in particolare verso Giorgione, nel testo di Gaspare Celio, nemico giurato di Federico Zuccari, compare Giovanni de Vecchi, come difensore del disegno e quindi detrattore dell’opera di puro esercizio del colore che Caravaggio stava dimostrando. Difendere il disegno come pratica essenziale per il pittore e soprattutto riportare Roma al centro della produzione delle arti sembrano i due assi teorici sui quali si muove complessivamente il testo del Celio, certamente privo della profondità culturale e della tensione intellettuale delle Vitedi Bellori, ma derivato in gran parte proprio dall’esperienza del mestiere di pittore, aspetto che lo rende una fonte di grande valore, da vagliare con attenzione. Ad emergere, oltre alle novità e alle aperture sulla vita e sulle opere dei suoi più stretti contemporanei è la scrittura vivace e strabocchevole di Celio. Non solo inventa il suo lessico, ma fa apparire luoghi e momenti: le facciate dipinte ammirate a Roma persino dai pittori fiorentini, lo sconforto di alcuni di loro davanti all’eccellenza delle opere di Polidoro da Caravaggio, come per esempio nella biografia di Andrea Del Sarto, al quale bastò, secondo il racconto, di vedere la facciata dipinta con le Storie di Alessandro Magno su una “casa di vigna” nei pressi di Ripetta, andata distrutta nel 1620, per decidere di tornare sui suoi passi senza misurarsi con i pittori di Roma.
Insomma, dalla diatriba fra Firenze e Roma alla ricostruzione di un mondo che stava cambiando, fra le ultime committenze tardo cinquecentesche della chiesa del Gesù all’irrompere sulla scena del naturalismo caravaggesco, il testo di Celio è una scoperta fondamentale, giunta a conclusione di una ricerca degna di uno dei più celebri allievi del college di fondazione gesuitica in cui si trova il manoscritto: Arthur Conan Doyle, inventore di Sherlock Holmes.