la Repubblica, 8 dicembre 2021
L’ultimo processo alle SS
ITZEHOE — L’imputata entra in aula come una diva sbagliata. È vestita interamente di bianco, il volto scavato è nascosto dietro a un paio di occhiali scuri, indossa un basco frivolo. Una mitragliata di flash la immortala davanti a un microfono che non accenderà mai. Irmgard Furchner ha 96 anni e ne ha passati due, tra il 1943 e il 1945, in un campo di concentramento vicino a Danzica a battere meticolosamente a macchina le atrocità che i nazisti infliggevano agli ebrei. L’ex segretaria del lager di Stutthof si aggiusta l’auricolare un paio di volte e poi tace ostinatamente. Furchner era la zelante tuttofare del comandante delle SS Paul Werner Hoppe; contava gli ebrei gasati, bruciati, fucilati o torturati e trasmetteva quei numeri, quegli ordini al quartier generale delle SS. È la grande accusata a Itzehoe, città nella regione dello Schleswig-Holstein, di uno degli ultimi processi contro i criminali della Shoah. E non mostra il minimo segno di pentimento.
A settembre, quando era scappata di casa per evitare la prima udienza, le sue gambe, appoggiate adesso su una sedia a rotelle, erano sembrate sanissime. I poliziotti l’avevano riacchiappata vicino all’aeroporto. Era fuggita a piedi e aveva dichiarato, indispettita, di non volersi far «umiliare» da un processo che potrebbe incriminarla per complicità nell’omicidio di 11mila ebrei sterminati a Stutthof. Da allora, l’ex segretaria nazista è sempre apparsa in aula, ma con un braccialetto elettronico attaccato alla caviglia. E sempre con quell’aria da diva offesa. Parafrasando Hannah Arendt su Adolf Eichmann, più che un mostro, una buffona. E le sue apparizioni da viale del tramonto difficilmente possono far dimenticare che, quando aveva diciassette anni, Furchner divenne una delle miriadi di rotelle nell’ingranaggio dello sterminio.
Quest’udienza, però, è diversa. È carica di tensione. Poco prima delle dieci di mattina, a un metro e mezzo dall’ex segretaria nazi, il giudice invita a sedere Josef Salomonovic, nato in Cecoslovacchia ottantatré anni fa, sopravvissuto a otto lager, tra cui Auschwitz. È arrivato da Vienna «per mio fratello e mia madre» ed è il primo testimone, il primo sopravvissuto a parlare al processo. Quando passò da Stutthof, aveva sei anni. Ogni tanto sua moglie gli sussurra qualcosa, «Pepek» lo chiama. E lui sventola in aula una foto del padre, a un certo punto la alza istintivamente in direzione dell’imputata, alla sua sinistra, senza mai guardarla in faccia. Lei non reagisce. Anzi, a un certo punto Furchner si addormenta. Il giudice è costretto a fare una pausa.
Quando l’udienza riprende, Salomovic racconta dell’assassinio di suo padre. «Era in fila con altri prigionieri quando le SS chiesero se qualcuno avesse bisogno di un medico. I prigionieri polacchi non si mossero. Mio padre fece un passo in avanti, ma un polacco gli sibilò: “È una trappola!”. Mio padre gli rispose: “Un ufficiale tedesco non mente”. I tedeschi lo presero, lo portarono in una stanza e gli fecero una puntura di benzene dritta nel cuore».
Josef ricorda le umiliazioni del lager. La madre sp ogliata e rasata: «Quando mi girai a cercarla per farmi allacciare una scarpa mi prese il panico, non la riconoscevo più in mezzo a tutte quelle donne senza capelli». Fu lei a trovarlo, si chinò ad aggiustargli il laccio. Se lo teneva spesso tra le gambe per riscaldarlo. «Ricordo la fame, ma soprattutto il freddo» mormora.
Dopo il suo lungo racconto lo avviciniamo mentre sta lasciando l’aula. Era la prima volta che incontrava Irmgard Furchner. «È stato orribile, avrei preferito che ci separassero», confessa a Repubblica. Al giudice, Salomonovic ha portato il certificato di morte del padre. Quello «probabilmente timbrato da lei». Salomonovic ha dormito male, ha preso un sonnifero prima di partire, «spero che anche lei abbia dormito male». E sulla sua colpevolezza non ha dubbi: «Era seduta in ufficio, indirettamente lo è». Sulle dichiarazioni ai magistrati della segretaria nazi non è trapelato nulla. «Posso dirle solo questo», dichiara l’avvocato di Salomonovic, Christoph Rueckel, «quando Furchner ha visto che la notizia della sua fuga era su tutti i giornali, ha gongolato». Tanti sopravvissuti, invece, non se la sono sentiti neanche di tornare in Germania, sopraffatti dagli ricordi.
Furchner sembra confermare l’impressione che Hannah Arendt ebbe di Eichmann: «Colpiva la sua totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri». E la totale mancanza di ogni senso di colpa.