La Stampa, 8 dicembre 2021
Giorgio Parisi spiega come pensa uno scienziato
Nell’universo del qui e ora Giorgio Parisi è Nobel della fisica da un mese e due giorni e oggi si racconterà con un collegamento online, mentre l’altro ieri ha ricevuto il Premio in una cerimonia all’Università La Sapienza con tanto di standing ovation. Eppure in un universo parallelo Parisi non avrebbe dovuto aspettare di compiere 73 anni per l’onorificenza numero uno della scienza: avrebbe potuto festeggiare molto prima, già a 25 anni, poco dopo la laurea in fisica.
Professore, lei è Nobel e allo stesso tempo un Nobel mancato: uno l’ha conquistato e uno le è sfuggito: è così?
«Ogni tanto qualche stupidaggine la si fa. Spesso affidarsi solo all’intuito per affrontare certi problemi funziona male. Bisogna rifletterci un po’ di più».
Politzer, Gross e Wilczek hanno vinto il Nobel nel 2004 per le ricerche sulle interazioni forti e sul ruolo di particelle sfuggenti come i quark. Anche lei si era dedicato al problema, ma, forse, non abbastanza. Ha dei rimpianti?
«Forse è stata una fortuna, perché a quel punto avrei rischiato di fossilizzarmi in una data direzione, che era quella della fisica delle alte energie».
Idee che arrivano e altre che svaniscono: come ragiona uno scienziato?
«Credo che dietro i pensieri ci siano dei processi inconsci e che solo dopo tutto diventi conscio. Un matematico diceva che i grandi matematici si distinguono da quelli bravi perché i primi capiscono subito quali teoremi sono veri e quali no. Le faccio un esempio: un ponte non si costruisce da un unico lato per poi andare avanti. Deve esistere un progetto, che mette in connessione i due lati. Quando un matematico ha un’idea, si chiede: come posso dimostrarla? Solo successivamente osserva i dettagli. Un esempio più tecnico è legato al teorema di Fermat».
Prova a spiegarcelo?
«C’erano molte dimostrazioni in giro riguardo all’ultimo teorema. Tutte sostenevano di averlo dimostrato, tranne che, a ben guardare, per un piccolo salto logico, che si doveva provare a riempire. Ma a quel punto si verificava il disastro. Anche per Andrew Wiles il primo tentativo di ottenere la dimostrazione si rivelò sbagliato. Quindi ci lavorò di nuovo, con un allievo, per un anno e a quel punto il buco l’hanno tappato. Solo i grandi matematici riescono a tappare questi buchi, che altrimenti si rivelano incolmabili».
Lei si è laureato nel 1970 sotto la guida di un grande fisico, e Nobel mancato, Nicola Cabibbo: quanto è cambiata la scienza da allora?
«Molto. Prima di tutto sulla scala delle collaborazioni e, infatti, oggi si parla di Big Science e a livello di strumenti. Da studente andavo in biblioteca a leggere, ogni giorno, articoli e riviste. Ora la quantità di conoscenza necessaria per iniziare una ricerca è sempre maggiore: l’equivalente di almeno un anno di più rispetto al passato. Il sapere si accumula e ci sono cose sempre nuove da imparare».
C’è chi pensa alla scienza pura e a quella applicata: è una distinzione sensata?
«In realtà le applicazioni non sempre sono prevedibili. A volte si manifestano subito, a volte ci vuole una grande quantità di tempo. Godfrey Hardy, che ha lavorato all’inizio del secolo scorso, scrisse Apologia di un matematico: era contento di lavorare su qualcosa che non aveva nessuna applicazione, come i numeri primi. E invece, quando oggi ci si connette in rete e appare l’informazione "sito sicuro", significa che si è di fronte a una comunicazione crittata: alla base ci sono proprio le idee di Hardy. Vuole altri esempi?».
Tutti quelli che vuole…
«Noam Chomsky. Negli Anni 50 la sua teoria era destinata a studiare i linguaggi naturali, ma poi te la ritrovi nei computer e nell’elaborazione dei linguaggi artificiali. Quante cose inattese… Penso al thermos, inventato da James Dewar per le misure a bassa temperatura destinate agli esperimenti con l’aria liquida e l’azoto liquido. Lui non immaginava che l’avremmo usato per il caffellatte. E l’html necessario per Internet fu ideato al Cern per lo scambio di dati tra i ricercatori. E i chip delle nostre fotocamere digitali, in origine, furono sviluppati per soddisfare le esigenze degli astronomi».
Lei ha detto in più occasioni che la scienza è molto più di quanto in genere si immagina: è cultura nel senso globale del termine.
«La scienza è influenzata dalla cultura della propria epoca. Distillando i tecnicismi, emerge lo spirito del tempo, quello che connette le cose. Pensiamo al futurismo, che voleva cambiare tutto, e ai fisici della meccanica quantistica, negli Anni 10 e 20 del Novecento. Non credo che i futuristi si siano ispirati ai fisici e che i fisici avessero letto il Manifesto di Marinetti. Eppure c’è un legame. Penso spesso che mi piacerebbe organizzare conferenze in cui presentare una serie di paragoni tra musica e scienza: la dodecafonia distrugge la vecchia armonia così come la meccanica quantistica distrugge la fisica classica. I fisici procedono con metafore che trovano nella società».
A proposito di cultura, i suoi scrittori preferiti?
«Luce d’Eramo e Paul Auster. Nella saggistica Stephen Jay Gould. E adesso mi scusi, ma vado in libreria per un paio d’ore di firme con il mio libro In un volo di storni».