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 2021  dicembre 08 Mercoledì calendario

Sulla prima alla Scala, il Macbeth di Chailly

Pierluigi Panza, Corriere della Sera

La virologia si mischia alla scenografia e alla politica nei commenti alla Scala: il piacere di «essere tornati», il ritornello «la gente voleva tornare» (Giorgio Armani) domina su musica e scena. Bentornata Scala: vedere e vedersi, pensarsi comunità anche con quelli che l’hanno vista in tv, forse anche meglio grazie «agli effetti speciali», è quello che conta.
Questa «prima» del ritorno all’opera in presenza, che potrebbe essere l’ultima di Mattarella — «Sarà l’ultima?», si domanda il sindaco Sala entrando —, inizia con gli applausi al presidente. E con commenti sanitari a pensiero unico. «Siamo qui perché ci vacciniamo», affermano all’unisono il ministro della Cultura, Dario Franceschini, e il virologo Burioni. Che aggiunge: «La musica fa bene al sistema immunitario».
Nel foyer l’ossessione del Covid prevale sull’ossessione dei Macbeth. Ma sollecitato a pronunciarsi sul mondo distopico, alla Blade Runner, pensato da Livermore, il pubblico in sala si divide. Forse anche perché molte riprese (come quelle dall’alto) e anche particolari di scena (come il brindisi con un rosso sangue nel bicchiere di Macbeth) sono più apprezzabili in tv. «Livermore sa usare bene gli effetti speciali per portarli al grande pubblico — afferma l’étoile Roberto Bolle —. È importante arrivare al cuore di tutti gli spettatori e con tutte le componenti del teatro, anche il balletto». «È un regista molto originale — dice Domingo — ha le sue idee e ci dà uno spettacolo straordinario. Oggi, talvolta mi capita di salire su un palco completamente vuoto»: con Livermore non c’è rischio. «Il Macbeth mi piace moltissimo, è un’opera straordinaria, una delle mie parti preferite da baritono e l’ho anche diretta». Per Alexander Pereira, ora sovrintendente del Maggio Musicale, «Chailly e Livermore lavorano molto bene insieme, sono un ottimo team».
Agli artisti figurativi lo spettacolo piace. La scena conquista Emilio Isgrò e ancor più Maurizio Cattelan: «Appena aperto il sipario ho fatto wow. Questo spettacolo segna una linea e la Netrebko è straordinaria». Gian Maria Tosatti, l’artista che rappresenterà da solo l’Italia nella prossima Biennale d’arte di Venezia è piuttosto esperto di teatro: «È il mio primo 7 dicembre», racconta un po’ colpito dallo schieramento di polizia. «Penso che la regia cerchi di incrementare il pubblico salvaguardando la qualità e questa è energia positiva. C’è molto equilibrio in scena». Qualche dubbio per la recitazione chiesta a Lady Macbeth. «È uno spettacolo difficile ma equilibrato — commenta il direttore di Brera, James Bradburne — ma è valso il rischio». Lo spettacolo piace anche ai giovani cantanti come Antonio Diodato, per Cesare Cremonini «la modernità dell’interpretazione avvicina i ragazzi» (tesi ribadita dal presentatore Alessandro Cattelan). Ma se ci addentriamo in un universo culturale più incline al vaglio critico (ci sono Roberto Dagostino, Andrée Ruth Shammah…) trapela qualche perplessità. Sui molti video è dubbiosa la presidente del Museo Egizio, Evelina Christellin, «ma Livermore è un amico». Anche l’ex sovrintendente Carlo Fontana non è del tutto convinto, nemmeno sulla Netrebko; per Fedele Confalonieri, già presidente della Filarmonica, «c’è troppo in scena: Macbeth è un dramma interiore, a me non piace tutto questo macchinario, l’ascensore». A Stefano Boeri, presidente della Triennale, non convince la scenografia, «non è di mio gusto».
Sarà che hanno saltato un anno ma la lista dei «notabili» è numerosa. Tra quelli istituzionali la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, il senatore Mario Monti. Numerosi gli esponenti di economia e finanza. I loggionisti hanno lasciato un posto vuoto in ricordo di Pia Matteoni, scomparsa in luglio.

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Egle Santolini, La Stampa
No, non è stata una prima della Scala come le altre quella di ieri sera, in scena Macbeth di Giuseppe Verdi, sul podio Riccardo Chailly, alla regìa il collaudatissimo Davide Livermore, protagonisti le superstar Anna Netrebko e Luca Salsi. In palco reale un presidente che sta terminando il settennato ma che viene invitato al bis, in buca per la prima volta da un tempo infinito 72 orchestrali e non un organico ridotto, in scena un coro sapientemente distanziato e che ha dovuto provare per settimane con le mascherine: «La serata è per il pubblico e per tutti quelli che lavorano qui e se la sono cavata in questi tempi difficili», è la dedica del sovrintendente Dominique Meyer. «Sotto le maschere, mi piacerebbe immaginare molti sorrisi».
E il teatro è felicemente pieno, non solo per questa recita d’inaugurazione che per forza è sempre anche di parata, ma anche per quelle successive che risultano esaurite o quasi. Il pubblico torna, parrebbe, corazzato dal super green pass. Il virologo Roberto Burioni tranquillizza infatti nel foyer: «Siamo qui in sicurezza, vaccinati e con la mascherina. La musica fa bene al sistema immunitario». Più in là, Plácido Domingo riconosce: «Stasera la Scala è, come sempre, al centro culturale e politico di tutto».
Forse ci voleva una storia di vendetta e di sangue per esorcizzare la penombra che abbiamo attraversato. Nello schema antico e infallibile della catarsi teatrale, abbiamo ricominciato da una dark lady, da un uomo glorioso in battaglia ma per il resto pusillanime, dal rimorso e dalla pazzia. Missione compiuta, vinta soprattutto da un Riccardo Chailly energico e impeccabile, che sulla base dell’edizione critica ha plasmato meravigliosamente il suono dell’orchestra, e da una Lady Anna Netrebko al top della sua maestria e cattiva come le Barbare Stanwyck e le Joan Crawford della Hollywood d’oro, la sigaretta fumata con sprezzo e gli aironi ricamati sul vestito. E poi Luca Salsi («aprire la Scala nel ruolo del titolo, che cosa posso sperare di più?»), Francesco Meli, Ildar Abdrazakov: cast al massimo, di veterani della primona. Una regìa pensata anche (soprattutto?) per il pubblico vasto che guarda dal divano di casa li ingloba in un mondo che sarà pure «da incubo», come ha detto Livermore ispirandosi al film Inception , ma che conserva un suo fascino sinistro, tutto cromature e scale e ascensori e saloni lussuosi da nuovi ricchi. Spettacolo molto televisivo, troppo? Tanto che certe soluzioni tecniche, per esempio le pantomime riprese dall’alto, o la passeggiata della Lady sonnambula sull’abisso, si colgono integralmente solo a casa e non in teatro? Il dibattito è aperto e qualcuno resta perplesso. Ma il fatto che Livermore firmi la sua quarta prima di fila dimostra come per Scala e Rai la strada sia quella.
Nel foyer, meno fiera delle vanità e più sostanza, molta arte, molta cultura, un bel po’ di mondo pop, ma di qualità. Assente l’annunciata Ornella Vanoni per un piccolo incidente dell’ultima ora, l’oggetto del desiderio per i selfisti è l’elusivo Maurizio Cattelan, sempre più di moda a Milano dopo la mostra all’Hangar Bicocca, che scappa davanti ai microfoni e ai taccuini: «Non so niente, non sono preparato, di solito rispondo per iscritto. Ma, alla fine, chi muore?». Ci sono Fabio Vacchi, Emilio Isgrò, Andrée Ruth Shammah, Stefano Boeri, Roberto Bolle che ricorda «i tanti spettacoli annullati, il periodo in cui ci siamo sentiti persi, sia fisicamente sia psicologicamente». Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi rassicura chi gli chiede ragione della mancata formazione musicale nella scuola italiana: «Stiamo preparando una legge, vogliamo musica nella scuola e musica per tutti». Fedele Confalonieri, più in là, si dice «d’accordo con Riccardo Muti quando denuncia lo strapotere dei registi sui direttori». Mentre lo stilista Giorgio Armani firma molte mises e loda «un’opera coraggiosissima e molto attuale». Cesare Cremonini è «felice di fare questo regalo alla mia mamma, siamo fan di Verdi», Manuel Agnelli è elettrizzato «da un titolo così dark», e dice cose molto sensate sullo stato della musica dal vivo «che è stata dimenticata. La Scala, va bene. Ma bisogna fare un gran lavoro nelle periferie e nei piccoli club». Mentre per Alessandro Cattelan «qualunque cosa post Covid è bellissima, dall’opera allo stadio». Alla fine, 12 minuti di applausi e qualche fischio per Livermore (che non va in conferenza stampa). Poi via, a casa o verso piccole feste private. Il virus ha sospeso anche il cenone di gala.

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Leonetta Bentivoglio, la Repubblica
La coppia più delittuosa della lirica, Macbeth e la sua Lady, sta ancora impregnando l’aria col veleno del suo carisma tossico quando dal pubblico di Sant’Ambrogio monta l’applauso finale. Durerà 12 minuti. Un buon successo, ma punteggiato da sonori “buhhh” rivolti allo sfrenatissimo regista Davide Livermore, ha accolto il Macbeth che ha inaugurato ieri la stagione della Scala. È una serata in cui si sente la voglia di rivincita dell’era post-lockdown, sancita dall’aggregarsi dell’arte italica: ci sono Verdi, il migliore melodramma ottocentesco e il prestigio della Scala. Si sta festeggiando il primo spettacolo completo dell’era pandemica, dispiegato con pienezza in palcoscenico e con la sala esaurita. È un ritorno alla normalità dopo stagioni ristrette, cancellate o distanziate. Dal podio Riccardo Chailly guida l’impresa con un senso calibrato dell’azione e un piglio estraneo a escandescenze gestuali.
Lady Macbeth è il soprano-star Anna Netrebko, primadonna seduttiva e diabolica. Macbeth è il baritono Luca Salsi, eccezionale per beltà di voce e acume interpretativo. È un grande uomo inquieto e istigato dalla consorte. Anche il resto del cast è solido, con Francesco Meli nella parte di Macduff e Ildar Abdrazakov in quella di Banco. La forza del capolavoro verdiano, ispirato a Shakespeare e alla sua tragedia sulla brama distruttiva del potere, non ha mai una stasi. La regia di Davide Livermore vive in due dimensioni. Una è la performance a cui il pubblico assiste in teatro, l’altra è reinventata da magie filmiche e digitali per i telespettatori di Rai 1. Grazie a trucchi tecnologici, diavolerie da videogame, microcamere inserite negli interni e muraglie virtuali sovrapposte e mescolate a strutture concrete, ciò che vediamo sui teleschermi differisce in parte da quanto avviene dal vivo. L’esempio più impressionante è la scena del sonnambulismo della Lady (un hit del quarto atto), che in tivù diventa una folle sospesa sull’abisso da brividi del vertice di un grattacielo, mentre in teatro cammina (ben arcionata) su un cornicione.
Fantasmagorico è il pastiche di effetti speciali, con l’esito di un thriller citazionista ( Metropolis , Baz Luhrmann, Inception ) lanciato tra i labirinti di una metropoli verticale. New York, ma non solo. Qualche sprazzo di un Oriente globalizzato alla Blade Runner fa pensare a Singapore, e certi paesaggi urbani sono scozzesi e londinesi. Garantita è la vertigine di squarci aerei e skyline. Nebbie, nuvolaglie, vetrate grigio- Armani, scale high-tech, fontane che sputano sangue. Dice Maurizio Cattelan, seduto in platea: “Questo lavoro dimostra perché ogni cent’anni è giusto reinventare l’arte”.
In principio avanza sulla scena un’automobile che emerge dai tronchi giganteschi di un bosco. L’incappottato Macbeth vi sta seduto accanto a Banco. Le streghe che vaticinano le profezie sono damazze neo-capitaliste o signore- manager. Macbeth canta le proprie aspirazioni al trono in un ascensore-prigione che occuperà spesso lo spazio scenico. Possente è l’entrata della Lady, stretta in un tailleur rosso e con sigaretta e whisky. Nella cavatina “Vieni, t’affretta…” parla di spingere il marito all’assassinio del sovrano. Non è una femmina: è una regina infernale. Sfarzoso è il salone del palazzo in cui si muove la coppia-monstre che sembra uscita dall’alta finanza contemporanea. O futuribile. O fantasy. Con estro rutilante fino al barocchismo, Livermore immagina il crollo del dominio di un mondo controllato dal denaro. Denuncia un’avidità che divora sé stessa. I due campioni di perfidia sono miliardari con abiti griffati e dispendiosi. I sicari di Banco paiono loschi finanzieri stilizzati e chic. Il fantasma di Banco si mostra al suo carnefice come l’iperbolica proiezione di un volto in primo piano. Nel terzo atto la scena dei ballabili è restituita da una coreografia ruvida e squadrata da Daniel Ezralow, e a un tratto vi irrompe dentro la Netrebko. Anche lei si mette a danzare, cavandosela egregiamente. Macbeth e la Lady proseguono nel loro delirio d’onnipotenza e trovano il tempo per una sveltina in ascensore. Nel quarto atto lo sfondo è il Battersea di Londra per la scena corale di “Patria oppressa”, dove i profughi piangono le sorti della loro terra insanguinata dal tiranno. Macduff, il tenore buono che liquiderà il baritono cattivo, lo definisce “quel tigre”. Geniale è l’aria del protagonista, ormai conscio della sconfitta (“Pietà, rispetto, onore”). Alle sue spalle avvampa la foresta. Duello tra Macduff e l’usurpatore Macbeth, che muore maledicendo la corona. Poi cade sottoterra in ascensore, prima del coro che celebra la patria e invita alla speranza.

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Luigi Mascheroni, il Giornale

Mai una rinascita, come quella della Prima alla Scala dopo le chiusure della pandemia, ha profumato così tanto di morte. Il Macbeth racconta di immondi omicidi, una storia di vendette e rimorsi, di «larve e terror», di follia, di assassinii, «Una macchia è qui tuttora Chi poteva in quel vegliardo/ Tanto sangue immaginar?».
Chi poteva immaginare che una tragedia come Macbeth potesse strappare passioni e applausi (alla fine sarà una standing ovation di 12 minuti) come fosse uno scampato pericolo, un ritorno alla vita, alla quotidianità, ai vecchi riti?
Il rito si è di nuovo compiuto. Teatro alla Scala, riecco il ritorno della «Prima» dopo lo show da divano dello scorso anno. Torna l’attesissimo 7 dicembre, così milanese e così nazionale: va in scena il Macbeth di Giuseppe Verdi diretto dal maestro Riccardo Chailly (eccellente), regia di Davide Livermore (una sfilza di «buuuu» per lui alla fine) e un cast collaudato di stelle, da Anna Netrebko, la Lady, primissimadonna, e Luca Salsi, Macbetto, intenso.
Grande soirée e super green pass. Il teatro è completo, smoking e mascherine. Fuori è come era sempre stato, prima: i manifestanti Cub e gli antagonisti del Cantiere protestano contro il governo e la manovra: «Tax the Rich». E dentro ci sono i ricchi e un pezzo di governo. A parte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - salutato dal pubblico in sala con cinque minuti d’applausi e un coro di «bis», ovviamente per un altro settennato, e poi il ministro della Cultura Franceschini (in smoking), quello dell’Istruzione Bianchi (in cravatta), la Casellati, il governatore, fino, sempre più giù, al sindaco di Milano e al nuovo giovane assessore alla Cultura. Il potere è un ascensore: si sale e si scende.
Ed è il potere, con la grande metafora dell’enorme ascensore che sale e scende in mezzo al palco per tutta l’opera, che muove la tragedia scespiriana riscritta da Francesco Maria Piave per Giuseppe Verdi. Nella Scozia dell’XI secolo il valoroso nobile Macbeth, assetato di potere e influenzato dalle parole della moglie, l’ambiziosa e ferina Lady Macbeth, sceglie di assassinare il suo Re e prendersi il trono. Ha così inizio una serie di sanguinosi eventi che porterà la coppia diabolica alla inevitabile disfatta. Un favola nera, rosso sangue.
Forse il modo migliore per riassumere l’opera lo ha trovato la signora accanto a noi, che prima dell’Inno chiama l’amica al cellulare: «Hai letto la trama? L’altra volta - ma a quale prima si riferisce?, ndr - non era morto nessuno, qui invece...». Su il sipario.
Il sipario si alza su un’auto in mezzo alla brughiera che punta i fari contro la platea. Macbeth e Banco, il suo coraggioso compagno (solo per un atto, poi lo ammazzerà) sono di ritorno da una battaglia vittoriosa. Cadaveri dappertutto, un corpo viene sbattuto giù dal cofano per poter ripartire I due hanno spade e cappotti, il coro spolverini e cravatte, la Scozia medievale è una megalopoli distopica popolata da grattacieli delle grandi multinazionali, santuari postmoderni della ricchezza e del dominio - anche qui la città che sale e la città che scende, tra futurismo e futuribile: è New York? è Chicago? è City Life? - e il castello dei Macbeth è un super attico disegnato da un graphic designer che ha visto qualche progetto di Piero Portaluppi, e chissà cosa ne pensa Stefano Boeri, qui in platea. Intanto, alla fine del primo atto dal loggione cala un sonoro: «Hanno rovinato Macbeth!». E in effetti alla fine se la parte musicale è piaciuta molto, diciamo che il giudizio su regia e allestimento è più divisivo
Divisa in due blocchi da due atti ciascuno - per dare tempo al pubblico di sciamare nel foyer, e va detto che quest’anno le mise sono in tono con il clima sociale: molto più sobrie, meno chiassose - l’opera in scena è fosca, cruenta, i personaggi ambigui e immersi in un’atmosfera apocalittica, scoppi e incendi, i cieli cupi e rossastri. Il sangue è il simbolo viscido della vicenda. Brama di potere e sensi di colpa, senza che la prima sappia soffocare i secondi e i secondi placare la prima.
Il Macbeth scespiriano è l’archetipo del desiderio di potere sfrenato e anche una riflessione sul destino, l’azione e la volontà. Al centro, lei: Lady Macbeth, tra fantasmagorie e sonnambulismi, è la personificazione del Male, ambiziosa, né femminile né tanto meno femminista, per una volta. È una donna.
Anna Netrebko è una regina immensa e cinica, tailleur alta moda oligarca, tacchi e mostrine. Eccessi, deliri, sesso (in ascensore, velocemente, fine terzo atto) e follia omicida. Lady Macbeth come Lady Gaga e il loft dei Macbeth come House of Gucci? Assassine, ma fashion.
Cose notevoli, in senso positivo o negativo, della «Prima». Ritrovarsi facendo finta che sia tutto normale: selfie, eleganza e la meraviglia di una serata unica. Reincontrare dal vivo i vip: Manuel Agnelli accanto a Cattelan, ma non Alessandro, Maurizio; o Liliana Segre, o Placido Domingo... E vederne così tanti in Armani, più dei rami della foresta di Birnam. Sentire Roberto Burioni nel ridotto che tiene un’altra lezione sul virus. Un certo trionfo del kitsch in scena: fra i tanti oggetti spunta anche la statua, una pantera che sembra di Rembrandt Bugatti. Il sospetto che per certi versi il Macbeth di Livermore pensato per la tv si goda meglio da casa sul piccolo schermo che qui, in grande, alla Scala.
E il capire che la vera tragedia è la natura malvagia dell’uomo. Per la quale, purtroppo, non c’è vaccino.